Categoria: <span>Psicologia del lavoro</span>

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MINDFULNESS IN AZIENDA

Essere consapevoli, anzi, essere attenti con consapevolezza, rappresenta un vero potere per l’individuo, ma anche per le organizzazioni. Questo era già ben noto 2500 anni fa, tempo in cui la mindfulness era una pratica ed un insegnamento centrale della tradizione psicologica buddhista.

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Oggi, la mindfulness viene considerata uno stile di pensiero, una formamentis in cui pensieri, emozioni e azioni vengono “liberati” dai classici automatismi comportamentali. Proprio attraverso un processo di progressiva consapevolezza, si disinnesca il famoso pilota automatico!

Le pratiche di mindfulness si concentrano strategicamente sulla dimensione temporale. È sufficiente sottolineare che oltre il 70% del tempo che viviamo, lo dedichiamo ad esplorazioni del passato o del futuro, praticamente a dimensioni che in realtà, non esistono! D’altra parte, è ben noto che lo stress che a volte sovrasta le nostre vite private e lavorative, è legato al 30% da ciò che accade, ma al 70% a ciò che pensiamo possa accadere!

La mindfulness, attraverso opportuni esercizi di respirazione e di consapevolezza, diventa una pratica essenziale anche nei moderni scenari lavorativi ed organizzativi e non è un caso che grandi Aziende abbiano sviluppato dei programmi per dipendenti e manager. Apple consente ai manager di meditare 30 minuti al giorno, mentre Nike ha una sala relax con percorsi indicati per tutti i dipendenti. Google sviluppa programmi di mindfulness personalizzati e in Yahoo, i lavoratori possono usufruire di sale meditative. Procter e & Bamble, Deutsche Bank sono altri esempi di aziende che ben comprendono la strategica rilevanza del benessere.

Quando si parla di “focus sulla Persona”, quindi, occorre considerare anche delle pratiche virtuose centrate proprio sul benessere e su una sempre più necessaria “wellbeing culture”. In sintesi, come dimostrano ormai numerosi studi, questi gli effetti più immediati della mindfulness in azienda:

  • Integrazione mente-corpo.
  • Focalizzazione del Quì e Ora.
  • Chiarezza nel lavoro e aumento della performance.
  • Coesione e condivisione di gruppo.
  • Self efficacy e creatività davanti ai problemi.
  • Intelligenza emotiva.
  • Potenziamento del team e della collaborazione.
  • Flessibilità e apertura al cambiamento.
  • Miglioramento delle dinamiche interpersonali e migliore comunicazione interna.
  • Miglioramento benessere psicofisico.
  • Prevenzione della ruminazione mentale.
  • Miglioramento del clima aziendale.

I 9 Enneatipi al Lavoro

I 9 ENNEATIPI AL LAVORO

L’Enneagramma è anche un ottimo strumento per la Conoscenza e lo Sviluppo delle Risorse Umane. Può essere anche utilizzato in ambito selezione e valutazione, orientamento professionale ed è un sistema pragmatico per il Team Building.

 

1.       Gli uno esigono che l’autorità indichi linee di comportamento, in modo da sapere esattamente cosa si vuole e si sentono più sicuri con indicazioni chiare di responsabilità. Se il superiore è ritenuto capace e giusto, gli 1 si assumono volentieri la responsabilità, se non lo è, hanno la tendenza a starsene fuori. Per un 1 è essenziale che le regole non vengano cambiate arbitrariamente e agiscono, infatti, in base al regolamento, si ritraggono se temono di compromettersi o se devono prendere per primi una decisione rischiosa. Mettono in atto una capacità lavorativa straordinaria se vedono che anche gli altri si impegnano a fondo o se si stanno battendo per una giusta causa. Se un buon lavoro non viene riconosciuto dai superiori, gli uno tendono ad impuntarsi su errori irrilevanti per sfogare la loro rabbia. La tendenza al perfezionismo gli spinge finché non fanno le cose che andavano fatte.

L’ ambiente favorevole include un lavoro che richiede pianificazione e meticolosità dei particolari: insegnamento, contabilità, compiti organizzativi, pianificazione. Gli 1 amano il cerimoniale, il protocollo, le procedure formali. Possono essere ricercatori, filologi, predicatori.   Sono attratti dalle religioni e dalle fedi che esigono una stretta adesione alle regole.

2.       I 2 sono attratti dal potere e cercano amore da persone importanti. Riconoscono immediatamente i potenziali vincitori ed hanno una naturale sensibilità per la condizione sociale delle persone. Hanno necessità di una presenza e di consigli autorevoli. I 2 spesso assimilano la propria identità con quella dell’autorità, condividendone le vedute. I 2 preferiscono agire dietro le quinte, appoggiando l’autorità ed è molto raro che un 2 appoggi una posizione impopolare. Sanno riconoscere le potenzialità delle persone e sono disposti a lavorare anche per piccoli compensi materiali se la qualità del contatto umano è alta. Capaci di rivolgersi agli altri, di metterli a loro agio, di farli parlare. Adattabili.

Potrebbero lavorare in ambienti caratterizzati da   qualunque forma di collaborazione o associazione con una persona di potere, devoti di guru, braccio destro del capo, segretaria del presidente, … Professioni che implicano aiuto agli altri.

Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.

3.       I 3 vogliono essere l’autorità. Sanno stabilire le priorità, portare a termine i progetti e godersi il riconoscimento che deriva dal successo. In generale la loro competitività è rivolta alla vittoria personale, ma se si identificano in un lavoro di gruppo, sono molto abili nel tenere insieme i vari membri. La presenza di un 3 è una garanzia di successo. Rappresenta un punto di riferimento per gli altri e sono abili nel cavarsela in situazioni difficili.

Ambiente favorevole: attività imprenditoriali, direttori, venditori, esperti comunicazione e costruttori di immagine, promozione, marketing. Gravitano attorno a situazioni in cui possono eccellere, o avanzare di carriera.

4.       I 4 ignorano le piccole autorità, ma hanno un grande rispetto verso le “grandi”. In questo possono essere o meno ribelli. Se l’autorità è punitiva o costrittiva il 4 cercherà di rompere le regole, cercando comunque di cavarsela. La grande autorità, invece, ha grande ammirazione, soprattutto se riconosce nel 4 una persona unica e speciale. Vi è un bisogno di essere riconosciuti da persone in vista. Il 4 sa riconoscere i talenti e smaschera gli eventuali “impostori”. Conoscono bene la differenza tra il migliore e il noto.

I 4 spesso hanno due lavori: quello che dà da mangiare e il lavoro da artista. Sono attratti da lavori in cui vi è una certa “bellezza”. Possono essere metafisici e profondi psicologi. Sono attratti dalla religione, dai rituali e dall’arte.

5.       I 5 non amano mettere tempo ed energie a disposizione degli altri. Sentono di avere una fonte limitata di energia e le interazioni personali li stancano facilmente. Fanno resistenza al controllo esercitato dall’autorità ritirandosi e accettano solo un minimo di supervisione. Il contatto con gli sconosciuti è considerato invasivo e considerano le ricompense o gli aumenti di stipendio come trappole usate dall’autorità. Un 5 può rinunciare a tali benefit a patto di poter stabilire da sé le proprie condizioni di lavoro. Sono disposti a lavorare molto se l’autorità gli concede di decidere orario e rapporti con gli altri. Sanno essere aperti e alla mano, ma solo se informati in anticipo delle loro mansioni. Hanno predisposizione per i progetti e la programmazione a lungo termine che richiedono una visione teorica. Rendono bene se sono considerati il “cervello” della situazione, senza però doversi occupare dell’esecuzione o della raccolta dei dettagli. I 5 sono i classici studiosi di “materie oscure”; gli organizzatori di vocabolari di una sconosciuta lingua tribale; programmatori che prediligono i turni di notte; i responsabili di un settore che però non hanno alcun contatto con la clientela.

6.       Il 6 ricerca un leader forte da seguire. Dubbioso sulla propria capacità di agire, proietta la propria forza sull’altro, soprattutto se esercita un ruolo autorevole. Assume un atteggiamento di idealizzazione e sottomissione all’autorità e sovente, aderisce con convinzione al gruppo, soprattutto per gestire la sua naturale paranoia. I 6 agiscono solo quando sono costretti a farlo e sono attratti da attività pericolose o competitive che richiedono una risposta veloce. Sono leali ad un gruppo e possono sacrificarsi per una giusta causa. È difficile rivolgere a un 6 un elogio, poiché un’attenzione particolare può destare sospetto (è una manovra? Cos’altro vorranno?). Un 6 tende alla procrastinazione e può lavorare in ambienti in cui la competizione è minima o esistono vincoli gerarchici stabiliti. Forze di polizia o professioni che richiedono un certo rischio. Possono prediligere professioni indipendenti.

7.       I 7 preferiscono l’egualitarismo, senza nessuno al di sopra e nessuno a di sotto. Se la loro libertà viene limitata, diventano feroci antiautoritari. Mantengono “alto” l’umore di un gruppo, con il loro modo di fare gradevole, con la piacevolezza nell’esprimersi, la simpatia e il fatto di “saperne un po’ di tutto”. Nel lavoro tendono a stimolare gli altri e le nuove idee e mostrano abilità spicca soprattutto nella programmazione. Mantengono un sano ottimismo di fronte agli ostacoli, ma possono soffrire per la routine. Preferiscono incarichi di ricerca, di collegamento tra progetti e persone e rapporti di consulenza. Sovente i 7 sono scrittori, narratori, editori, teorici di nuovi paradigmi, idealisti, futurologi e viaggiatori internazionali. Alla ricerca del meglio, preferiscono la interdisciplinarietà. Abili nella progettazione, nella sintesi e nel coordinamento.

8.       Gli 8 credono sempre di conoscere l’approccio giusto e di detenere il comando. Vogliono la leaderhip e la supervisione di tutti i particolari. Hanno la spinta a proteggere gli altri più “deboli”. Sono sempre in competizione con chi detiene una posizione di potere. Hanno necessità di dati affidabili e, a volte, ignorano la diplomazia. Odiano essere mantenuti all’oscuro e amano avere posizioni dominanti. Sanno essere ottimi condottieri, soprattutto in prima linea. Il loro ambiente ideale è la politica, il sindacato, le organizzazioni ambientaliste. Possono essere dirigenti d’azienda, con una parte che controlla e l’altra che esercita giustizia o costruttori, che da un lato accumulano fortune fabbricando condomini e nello stesso tempo, capeggiano con cuore una campagna per dare ricovero ai senzatetto.

9.       Un 9 lavora con un’azione chiara da seguire. Può sperimentare disagio se la posizione richiede continue scelte e decisioni. Preferiscono procedure collaudata e risultati prevedibili e il rapporto con l’autorità è buono se gli avanzamenti e i premi sono chiaramente stabiliti. In gruppo, il 9 assume posizioni e punti di vista dei colleghi e tende ad essere un armonizzatore dello stesso. Può essere un ottimo mediatore, ma non ha fame di riconoscimenti. Se immaturo non è in grado di dare soluzione alternative al gruppo e tende ad astenersi dalla responsabilità o dai doveri. Ambiente favorevole può essere quello di un lavoro di routine e procedure precise e determinate. Potrebbe prediligere lavori burocratici.

Food Fight Chefs

 

Motivazione e SPORT

Motivazione e Sport.

 

Esistono diverse definizioni di motivazione. Potremmo definirla, però, in senso pragmatico e chiaro, riprendendo una definizione di Antonelli come “la causa di un determinato comportamento”.

Il tema della motivazione è di strategica rilevanza nello sport così come, in genere, riveste un aspetto chiave in altri contesti della nostra vita.

La motivazione è una vera “spinta” a compiere una determinata azione allo scopo di raggiungere un obiettivo fissato. Motivazione, quindi, come azione a raggiungere un qualcosa.

Oggi, le richieste più frequenti degli atleti e degli stessi allenatori sono proprio legate agli aspetti motivazionali: come mai un atleta è più motivato rispetto ad un altro? Come mai esistono i cali motivazionali? Come faccio a motivare maggiormente l’atleta? Come faccio a motivarmi? Quesiti normalissimi che celano dinamiche e processi complessi.

Parallelamente, è interessante indagare gli aspetti che spingono le persone, indipendentemente dall’età e dal genere, a praticare sport. In genere, le persone fanno sport per svariate ragioni, dalle più semplici ed ovvie alle più articolate. I diversi programmi di allenamento nello sport che non tengono conto del complesso motivazionale sono, in realtà, destinati a fallire.

Uno dei primi modelli analizzati per cercare di comprendere le motivazioni sportive è quello di Birch e Veroff (1966) che precisava sette motivi che dirigono il comportamento umano:

  • AFFILIAZIONE
  • POTERE
  • INDIPENDENZA
  • STRESS
  • ECCELLENZA
  • SUCCESSO
  •  AGGRESSIVITA’
  • Tali motivazioni fondamentali furono prese in considerazione nelle prime ricerche descrittive degli anni ’70. Emerse, pertanto, che le persone fanno sport soprattutto per fare amicizia e per esprimere le proprie potenzialità. Altre ricerche in tal senso, sottolinearono, invece, il ruolo strategico del diverstimento nello sport e l’acquisizione di abilità sportive.

Alla stregua, gli stessi studi esplorativi evidenziarono che l’abbandono sportivo era soprattutto dovuto a incomprensioni tra allenatore e atleti, alla noia e ripetitività degli allenamenti, agli infortuni, all’eccessiva importanza data agli aspetti competitivi.

Uno studio molto interessante, allargato in molti Paesi europei fu anche quello di Gill, Gross e Huddleston del 1983. Le indagini effettuate attraverso questionari costruiti appositamente per lo studio delle motivazioni, permisero di raggruppare otto fattori che spiegano la motivazione nello sport:

  1. Risucita/status.
  2. Squadra.
  3. Forma fisica.
  4. Spendere energia.
  5. Rinforzi estrinseci.
  6. Miglioramento delle abilità sportive.
  7. Amicizia.
  8. Divertimento.

Acquisizione di competenza sportiva, divertimento, competizione, stare in squadra, risulterebbero le motivazioni principali nelle attività sportive giovanili.

Successive ricerche descrittive misero in evidenza che le ragazze attribuiscono maggiore rilevanza all’amicizia e alla forma fisica, mentre i ragazzi maggiormente all’acquisizione di uno status, al vincere e ai premi. Indipendentemente dall’età, altre ricerche correlate sugli aspetti motivazionali, rilevarono come lo sport è importante soprattutto perché viene associato al miglioramento della propria salute e a un senso generale di benessere.

Altre ricerche, condotte anche in Italia, si sono poi soffermate sulle differenze motivazionali nello sport a seconda dello status socio-culturale, in una prospettiva, quindi, interculturale.

 

Principali teorie sulla motivazione.

 Seguendo uno dei primi lavori in materia di psicologia dello sport, Antonelli e Savini ripercorrono le teorie principali sulla motivazione: l’interpretazione istintiva, l’interpretazione biologica, l’interpretazione etologica, l’interpretazione organismica, la riflessologia, l’interpretazione di Lewin, quella di Allport, l’interpretazione di Miller e Dollard, l’interpretazione psicodinamica con i contributi di Freud, Jung, Adler, Fromm, Sullivan e Murray e l’interpetazione antropo-sociologica.

Diversi studiosi, con le loro diverse teorie di riferimento e anche convinzioni hanno dato il loro apporto allo studio della motivazione umana. Quali sono le motivazioni legate maggiormente allo sport?

Un fattore motivazionale, primario, molto rilevante legato allo sport è senza dubbio il gioco. Il gioco ricopre un ruolo chiave e strategico nell’uomo, indipendentemente dall’età, dal genere, dallo status di appartenenza. Direi che il gioco, è un lavoro serio! Il gioco assolve, inoltre a differenti funzioni, da quella cognitiva e formativa, a quella affettiva ed emotiva sino a quella psicologica, pedagogica o andragogica e psicoterapica. Non è certo un caso che oggi, molte attività in-formative effettuate con gli adulti vengono organizzate e gestite proprio attraverso modalità ludiche (es. giochi di ruolo, giochi di squadra, team bulding).

Un’altra motivazione che spinge alla pratica sportiva è senza dubbio l’agonismo. Esso è legato all’esigenza naturale da parte dell’uomo di sfidare e sfidarsi ed è connesso, per certi aspetti, all’aggressività. Lo sport assumerebbe, di conseguenza, anche una valenza catartica, di sfogo, appunto dell’aggressività umana.

Tra i fattori della motivazione sportiva occorre anche considerare: i fattori psico-biologici, i fattori psicologici, i fattori socio-culturali, i fattori psicopatologi.

Si riporta, di seguito, uno schema riassuntivo adattato che parte dal lavoro di Antonelli e Salvini.

FATTORI MOTIVAZIONALI

  • Psico-biologici: omeostatici, autoplastici.
  • Psico-patologici: inferiorità, desiderio di potenza, narcisismo, virilità.
  • Socio-culturali: affiliazione, approvazione sociale, achievement, economico, mobilità sociale.
  • Psicologici: affettivo, comunicativo, emulativo, individualizzante, proiettivo, catartico, etico ed estetico.

La motivazione sportiva secondo Bouet sarebbe legata ad alcune motivazioni di base:

  1. Il bisogno di movimento, come esigenza di spendere energie in senso biologico.
  2. L’affermazione di sé, intesa in senso personale e sociale.
  3. La compensazione, concetto per certi versi simile a quello di sublimazione attraverso il quale l’individuo sostituirebbe con lo sport altre attività negate per svariate ragioni.
  4. L’aggressività, intesa in senso costruttivo e al contempo negativo.
  5. L’affiliazione sociale, come contatto umano e intenzione di far parte di un gruppo.

Vanek e Cratty mettono a punto una teoria definibile “multifattoriale” che spiegherebbe la strutura motivazionale nell’atleta superiore. In tale concezione toerica, i diversi fattori motivazionali sarebbero poi messi in relazione con le perofrmances sportive, gli obiettivi raggiungibili e raggiunti e la relativa interpretazione del successo o dell’insuccesso.

Occorre giungere agli studi ipotetico-deduttivi di Murray, McClelland e Atkinson per parlare di motivazione in termidi di raggiungimento del successo o evitamento dell’insuccesso. La motivazione al successo sarebbe legata alla formza dell’orientamento al successo, alla probabilità percepita di avere successo e al valore incentivante del successo. La motivazione ad evitare l’insuccesso sarebbe connessa ai medesi fattori prima analizzati ma in senso opposto. Inoltre, i sentimenti conseguenti di orgoglio o vergogna derivanti dal successo o dall’insuccesso giocherebbero un ruolo determinante nei successivi comportamenti di nuovo approccio o di evitamento.

L’approccio di McClelland e Atkinson ha evidenziato che gli atleti che possiedono un elevato desiderio di successo hanno prestazioni migliori rispetto a chi mostra una bassa attesa di successo. Tali affermazioni trovano conferma in altre ricerche e nel concetto moderno di Self-efficacy (autoefficacia).

La motivazione, in realtà, non può essere legata solo a fattori soggettivi e personologici e tale constatazione era già stata intuita tempo fa con i primi studi pioneristici. La motivazione, infatti, è influenzata anche dai così detti fattori situazionali. L’uomo, come essere bio-psico-sociale è inserito in un contesto e tale contesto ne influenza il comportamento e non solo.

Nicholls identifica due principali orientamenti motivazionali: l’orientamento al compito e l’orientamento al Sé. Gli sportivi orientati al Sé praticano sport strettamente per esigenza di competere, per motivi di status sociale, per ricevere riconoscimenti. Gli sportivi orientati al compito avrebbero maggiore bisogno di sviluppare abilità fisiche in rapporto anche al mantenimento della forma fisica.

Altri studi interessanti condotti intorno agli anni ’90 sulla motivazione e sulla prestazione sportiva evidenziano come i giovani preferiscano ricevere rinforzi positivi da parte degli allenatori, ma anche indicazioni e tecniche su come migliorare la performance. Ciò aumenterebbe la percezione di competenza. È emerso, inoltre, che i giovani con maggior autopercezione di competenza attribuiscono il successo a componenti interne, più stabili e con elevato controllo personale. Tali studi coincidono con il concetto moderno di “locus of control interno” vs “locus of contro esterno”, ovvero sull’attribuzione dei successi.

Tali ricerche e studi in tema di motivazione dovrebbero essere ben conosciute dagli allenatori o dai preparatori atletici che spesso, motivano l’atleta in modo distorto e attraverso meccanismi paradossalmente poco motivanti o stimolanti ai fini della prestazione ottimale. La percezione di competenza e l’attivazione derivante dall’effettuare una sfida sono elementi che fanno parte della motivazione intrinseca. In ambito sportivo, l’orientamento al compito fa aumentare la motivazione intrinseca, mentre l’orientamento al Sé può causare una riduzione dell’interesse. Inoltre, chi è orientato al Sé mostra anche meno piacere dal gioco, indipendemente dal risultato.

Semplificando le correnti di pensiero, gli studi e le diverse teorie, si può pragmaticamente definire la motivazione come un processo che governa le scelte e al contempo un fenomeno che ha una direzione, un’intensità, aspettative e bisogni.

Un’interessante classificazione proviene da Kanfer (1990) che raggruppa gli approcci moderni alla motivazione principalmente in tre filoni principali: le ricerche sui bisogni-motivi-valori, quelle sulla scelta cognitiva o dinamica dell’azione e quelle sull’autoregolazione.

Nel paradigma bisogni-motivi-valori il ruolo fondamentale è la motivazione intrinseca e le determinanti personali del comportamento, ovvero la soddisfazione dei bisogni. I bisongi, i motivi e i valori sono considerati obiettivi o mete personali che possono mutare in accordo alle caratteristiche stabili degli individui e/o con la rappresentazione dell’ambiente circostante.

Il paradigma della scelta cognitiva enfatizza in primis l’agito comportamentale e la prestazione in sé. L’attenzione è dunque sulle aspettative.

Gli approcci dell’autoregolazione ricalcano la mente e le sue intrinseche proprietà di autoregolazione in risposta all’ambiente allo scopo di esercitare un certo livello di controllo.

Le teorie dei bisogni fanno riferimento dunque a bisogni fisici-psicologici e ai concetti di sopravvivenza e benessere. Le teorie del valore sottolineano ciò che l’individuo desidera e i valori assumono, in questo, anche connotati morali. Nelle teorie dell’obiettivo, il raggiungimento di esso diventa strategico e appare come qualcosa di specifico.

Altri orientamenti teorici si concentrano sull’aspettativa di successo e studiano le convinzioni personali sulle proprie capacità e sul controllo dei risultati. Altre teorie riguardano, invece, il valore attribuito al compito e approfondiscono le ragioni della scelta e sono quelle che fanno la distinzione tra motivazione intrinseca ed estrinseca. La teoria del self-worth del 1998 che affronta il bisogno di mantenere un alto valore di sé e infine, le teorie che cercano di integrare motivazione e congizione (2003) che studiano il ruolo delle strategie cognitive nei processi motivazionali.

Cosa sapere in più sulla motivazione.

 

Personalmente ritengo che per raggiungere un obiettivo non basti solo la motivazione. È anche questione di personalità, di grinta, di carattere, … Inoltre, in alcuni casi, viene “sopravvalutata” la motivazione come aspetto fondamentale di una qualsiasi pratica sportiva.

Anche un topolino è capace di lottare a lungo contro le difficoltà presenti in un labirinto per raggiungere un enorme pezzo di formaggio di difficile accesso, ma prima o poi, se l’obiettivo non viene raggiunto, quell’impegno svanisce e il topolino si arrende.

Per potersi focalizzare su di un obiettivo gli animali hanno bisogno della prospettiva di una gratificazione a breve termine. Questo vale spesso anche per l’uomo.

Di fatto, nessun animale è in grado di impegnarsi e perseverare per realizzare un obiettivo incerto, immateriale e molto sfidante. Nessun animale, eccetto l’uomo! Ed è proprio questa, a mio avviso, la chiave aurea della motivazione.

Sovente, spingere, convincere, motivare appunto gli altri, nello sport come in altre situazioni della vita, è importante, ma non è sufficiente.

Occorre fare i conti con altre “questioni”.

In generale, le persone potrebbero avere paura di fronte alla scoperta delle proprie possibilità e in alcuni casi fingono di non avere del potenziale. Lo stile di vita, la frammentazione dell’attenzione e un atteggiamento di passivizzazione e distruzione dell’intenzionalità, esasperato sicuramente anche dai tempi moderni (es. utilizzo spasmodico della tecnologica e dei social media) incidono, non solo sull’attenzione e la motivazione, ma anche sui “cali motivazionali.”

La motivazione estrinseca, allora, ha le sue falle!

Se la motivazione non dipende da me, ma dal mondo esterno, cosa posso farci?

Tutto ciò potrebbe paradossalmente essere rassicurante, perché permette di incolpare il mondo quando non abbiamo voglia di fare. Ci risparmia la fatica di impegnarci. Ma niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un’occupazione. (Pascal)

Le persone, in realtà, e a maggior ragione anche i bambini, per stare bene, hanno bisogno di stimoli, di interessi e di cose che li impegnino.

Come allenatori e come genitori dovremmo sapere che il «bastone», cioè l’uso di uno stile autoritario, della costrizione o di punizioni non è molto efficace per motivale le persone. Sul breve funziona, ma sul lungo termine è fallimentare. La direttività, infatti, deresponsabilizza e plasma persone inette o meri esecutori in attesa di ordini.

Anche l’incentivo va soppesato strategicamente. Esso, infatti, funziona, ma a breve termine. Una ricompensa che sarà resa disponibile dopo anni non ha nessun effetto sul livello di impegno del soggetto. In questo è molto importante fissare alcuni sotto-obiettivi.

Ma occorre anche sapere che l’incentivo e l’impegno sono correlati solo in fase iniziale: se aumentano i premi, l’impegno aumenta in maniera proporzionale, ma solo fino ad un certo punto. Infatti, potremmo schematizzare nel seguente modo:

  • L’incentivo stimola il soggetto a conseguire una meta solo se il raggiungimento della stessa non implica troppo rischio, sofferenza o troppa fatica.
  • L’incentivo aumenta leggermente la produttività in compiti di tipo algoritmico (es. procedura ben definita) ma non in quelli creativi.
  • Gli incentivi funzionano moderatamente: quando gli obiettivi sono chiari, routinari, poco sfidanti e raggiungibili in tempi brevi.

La chiave aurea diventa la motivazione intrinseca, Motivare, infatti, è più vicino al termine Educare (tirare fuori, far uscire). La motivazione intrinseca è la capacità di attivarsi sulla base di un’intenzione interna e non ha bisogno di ricompense esterne. La rinuncia avviene allora quando la persona, pur spronata, motivata dall’esterno (un buon allenatore, una ricompensa, un obiettivo, …) non trova, durante la strada, quella personale spinta interiore, insieme al piacere di farcela, di sentirsi capaci, di essere all’altezza.

Ogni pratica sportiva, per “durare” nel tempo, dovrebbe anche portare la persona verso una sorta di esplorazione personale. Ritengo che lo sport sia, infatti, un vero percorso …

 

 

 

 

 

 

 

Il BURNOUT

Una definizione.

Il burn-out (essere bruciati, esauriti, scoppiati) è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di affaticamento, logoramento e improduttività lavorativa. La sindrome da burn-out è stata osservata per la prima volta negli Stati Uniti in persone che svolgevano diverse professioni d’aiuto: infermieri, medici, insegnanti, assistenti sociali, poliziotti, operatori di ospedali psichiatrici, … Secondo Maslach, il burn-out è un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente.

Le manifestazioni di tale sindrome:

  • esaurimento emotivo,
  • depersonalizzazione,
  • ridotta realizzazione personale.

L’esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro. La depersonalizzazione si presenta come un atteggiamento di allontanamento nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura. La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell’’autostima ed il sentimento di insuccesso nel proprio lavoro.
Il soggetto “colpito” da burn-out manifesta spesso sintomi a-specifici come: irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia; sintomi somatici quali tachicardia, cefalee, nausea; sintomi psicologici come depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti.

Spesso tale situazione di disagio induce il soggetto ad abuso di alcool o di farmaci. Gli effetti negativi del burnout non coinvolgono solo il singolo, come persona e come lavoratore ma anche l’utenza a cui viene offerto, di conseguenza, un servizio inadeguato ed un trattamento meno umano.

Il burn-out può essere considerato come una conseguenza dello stress, stress concepito come   una risposta aspecifica dell’organismo ad una richiesta di prestazioni. Ovviamente, esso va inteso come fenomeno più complesso dello stress.

Identificazione delle cause del burn-out.

Possiamo evidenziare cause soggettive e cause socio-culturali.

Fanno parte delle cause soggettive:

  • Caratteristiche della personalità;
  • Insufficiente maturazione emotiva;
  • Incapacità di reggere relazioni sociali coinvolgenti;
  • Tendenza all’eccessivo coinvolgimento nelle problematiche altrui;
  • Intolleranza della frustrazione;
  • Incapacità di gestire il tempo in modo efficace e produttivo, con conseguente continua insoddisfazione per come lo si è utilizzato (indipendentemente dagli esiti raggiunti).

Fanno parte delle cause socio-culturali:

  • Malfunzionamento gestionale della struttura;
  • Non avere tempi e spazi prefissati per la propria crescita personale;
  • Essere scarsamente retribuiti;
  • Essere sovraccarichi di lavoro;
  • Non avere possibilità di interazione con i colleghi;
  • Insoddisfazione nei rapporti con colleghi;
  • Insufficiente autonomia decisionale;
  • Scarso rapporto con i superiori;
  • Problematiche personali di tipo relazionale o comunque di tipo familiare.

Caratteristiche del burn-out e sintomatologia.

sindrome da esaurimento psicofisico Mirco Turco

La vittima di burn-out può vivere una sintomatologia complessa di tipo cognitivo, emozionale e comportamentale.

Sintomi psichici:

esaurimento emotivo, depersonalizzazione dell’utente, ridotta realizzazione professionale. Ai sintomi inclusi in queste tre categorie, F. Folgheraiter aggiunge quelli descrivibili globalmente come perdita di controllo.

In base a questo criterio, i sintomi possono essere raggruppati in quattro categorie:

  1. Collasso delle energie psichiche (resistenza ad andare al lavoro, apatia, demoralizzazione, difficoltà di concentrazione, diagio, incubi notturni, irritabilità, preoccupazioni eccessive o immotivate, senso di inadeguatezza, sensi di colpa, senso di frustrazione o fallimento.
  2. Collasso della motivazione (perdita della capacità empatica, rigidità nell’imporre regole o norme, cinismo, ostilità, rifiuto vero gli utenti o i colleghi.
  3. Caduta dell’autostima (svalutazione professionale e personale).
  4. Perdita di controllo (mancato controllo dello spazio, pensieri lavorativi ininterrotti, mancata possibilità di “staccare la spina”).

Sintomi comportamentali:

Assenteismo; progressivo ritiro dalla realtà lavorativa (“disinvestimento); difficoltà a scherzare sul lavoro, talvolta anche solo a sorridere; ricorso a misure di controllo o allontanamento nei confronti degli utenti: sedazione, contenzione fisica, espulsione; perdita dell’autocontrollo: reazioni emotive violente, impulsive, verso utenti e/o colleghi; tabagismo e assunzione di sostanze psicoattive: alcool, psicofarmaci, stupefacenti.

Sintomi fisici:

la sindrome di burn-out può provocare o peggiorare una sintomatologia di tipo psicosomatico (Bernstein, , Cherniss 1983, Halaszyn 1989) e nello specifico:

  1. a) disfunzioni gastrointestinali: gastrite, ulcera, colite, stitichezza, diarrea;
  2. b) disfunzioni a carico del SNC (sistema nervoso centrale): astenia, cefalea, emicrania;
  3. c) disfunzioni sessuali: impotenza, frigidità, calo del desiderio;
  4. d) malattie della pelle: dermatite, eczema, acne, afte, orzaiolo;
  5. e) allergie e asma;
  6. f) insonnia e altri disturbi del sonno;
  7. g) disturbi dell’appetito;
  8. h) componenti psicosomatiche di: artrite, cardiopatia, diabete.

Insorgenza e decorso del burn-out.

Generalmente, possono essere identificate quattro fasi specifiche:

  1. Entusiasmo idealistico;
  2. Stagnazione;
  3. Frustrazione;
  4. Disimpegno.
  1. La prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che hanno spinto gli operatori a scegliere un certo tipo di lavoro. Tali motivazioni possono essere consapevoli o inconsce.
  2. Nella seconda fase (stagnazione) l’operatore si accorge progressivamente che il lavoro non soddisfa più i suoi bisogni. Si passa così ad una riduzione dell’impegno lavorativo e ad un sorta di disimpegno.
  3. La terza fase (frustrazione) è quella più critica. L’operatore pensa di non poter più eseguire il lavoro. Si sviluppano vissuti di perdita, svuotamento, crisi emozionali e valoriali. La persona frustrata potrà anche assumere atteggiamenti di tipo aggressivo o potrà mettere in atto comportamenti di fuga (ad esempio periodi prolungati di malattia o allontanamento dal posto di lavoro).
  4. La quarta fase (disimpegno) è caratterizzata dal passaggio dalla empatia all’apatia. In tal caso, il soggetto sperimenta una sorta di “morte professionale”.

E’ fondamentale, ai fini della prevenzione, considerare il burn-out come un complesso problema “contagioso”. Esso, infatti, non riguarda solo la persona che lavora, ma può estendersi ad un gruppo o un equipe. E’ dunque un problema organizzativo. Le conseguenze di tale sindrome ricadono, infatti:

  • Sull’operatore
  • Sul gruppo
  • Sugli utenti
  • Sull’intera organizzazione
  • Sul sistema sociale

 Strategie per la Prevenzione del Burn-Out.

La prevenzione del burn-out può essere realizzata attraverso una serie di strategie:

  • Incoraggiamento degli operatori verso nuovi obiettivi gratificanti;
  • Aiuto per innalzare i meccanismi di controllo e di feed-back;
  • Implementare l’efficacia professionale e l’efficienza del ruolo attraverso training specialistici;
  • Attuare interventi di gestione del tempo (time management);
  • Conoscere le dinamiche lavorative e le possibili problematiche associate;
  • Esercitare un controllo/monitoraggio sul fenomeno burn-out da parte di professionisti del settore;
  • Creare dei gruppi di discussione e aiuto sulle problematiche lavorative;
  • Pianificare bene il lavoro;
  • Incoraggiare gli operatori a fruire delle ferie in modo strategico;
  • Organizzare training per la gestione e la risoluzione del conflitto;
  • Pianificare interventi specifici di psicologia del lavoro e delle organizzazioni;

  • Il burn-out, come altre problematiche già conosciute, fa parte delle realtà organizzative disfunzionali, realtà che non tengono conto, per mancata conoscenza o per altre ragioni, della rilevanza della gestione strategica delle risorse umane. Gestione strategica delle risorse umane significa soprattutto conoscenza delle variabili soggettive dei singoli dipendenti e conoscenza di aspetti rilevanti quali clima e cultura organizzativa ma anche conoscenza e gestione delle dinamiche di gruppo, conoscenza e valorizzazione dei processi organizzativi, conoscenza e consequenziale applicazione di strategie che afferiscono alla psicologia applicata.

La Negoziazione

La Negoziazione.

 

Quando ci troviamo a confrontarci con una persona difficile, il primo passo non è controllare il suo comportamento, ma il nostro.

La negoziazione può essere considerata come un metodo attraverso il quale le persone appianano le differenze. È un’arte, ma anche una scienza. È un’arte perché dipende dalla nostra creatività ed è una scienza perché è anche governata da tecniche e strategie.

Tali principi guida provengono dalla Squadra di negoziazione ostaggi del Dipartimento di Polizia di New York, nata nel 1973.

La negoziazione è un’attività che svolgiamo, in realtà, in diverse occasioni, da quelle più banali e quotidiane, a quelle più articolate che magari riguardano il nostro lavoro, come quando vogliamo richiedere un aumento di stipendio o un avanzamento di carriera. In ogni caso, la negoziazione dovrà essere considerata un processo attraverso il quale si raggiunge un accordo in maniera mutualmente soddisfacente. Occorre, infatti, abbandonare l’assunto superficiale che in una negoziazione occorra “vincere”. È importante, pertanto:

  • scindere le persone dal problema;
  • concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni;
  • generare opzioni soddisfacenti per tutte le parti.

Per negoziare bene occorre esercitare soprattutto tatto e rispetto. Tali elementi costituiscono gli strumenti principali perché ci aiuteranno ad identificare il problema e a trovare una connessione con l’altra parte. Possiamo adoperare la seguente prima schematizzazione:

  • Per risolvere un problema, occorre prima identificarlo.
  • Costruire relazioni è fondamentale nella negoziazione e la comunicazione ha una parte preponderante nel costruire relazioni.
  • Il contenuto è importante, ma dobbiamo anche fare attenzione alla componente emotiva.
  • Il rapporto comincia a svilupparsi quando la controparte comincia a sentirsi a proprio agio in nostra presenza.
  • Ovviamente, la comunicazione non è solo verbale.
  • Fate attenzione alla vostra faccia quando parlate con qualcuno, soprattutto durante una situazione critica.

Qualcuno asserisce che per negoziare bene occorre soprattutto essere degli abili oratori. In realtà, non è proprio questo il “trucco”. Se consideriamo il più elementare dei bisogni umani, comprenderemo la giusta prospettiva.

Vi è un esigenza universale dell’essere umano che è quello di capire e di essere capiti e il miglior modo per capire le persone è ascoltare. Non è un caso che il mantra della HNT (Negoziazione Presa Ostaggi) è «PARLA CON ME». Notate che non è «ascoltami», poiché vorrebbe dire che il negoziatore è l’unico a parlare.

L’ascolto è un’attività consapevole, mentre il sentire è un’attività automatica, accidentale e involontaria. La persona, infatti, decide consapevolmente di ascoltare qualcuno o meno. La regola della negoziazione è pertanto: 80% ascolto e 20% parlare. «Il trucco per fare in modo che ti trovino simpatico è semplicemente ascoltarli» sosteneva D. Carnegie e «L’inabilità dell’uomo nel comunicare deriva dalla sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto» affermava C. Rogers.

Un altro schema pragmatico in materia di negoziazione ci semplifica sicuramente le cose:

  1. Rapporto
  2. Identificare il problema
  3. Connessione
  4. Ascolto attivo

Per praticare la negoziazione occorre necessariamente avere ed implementare alcune abilità: occorre essere maturi, stabili emotivamente, occorre saper esercitare la compassione, parlare chiaramente, agire con diplomazia e possedere rapidità di pensiero.

La stabilità emotiva è un tratto personologico fondamentale per chi conduce negoziazioni. Non dobbiamo mai rispondere alla rabbia di qualcuno con la nostra rabbia e occorre considerare che ciascun negoziato è mosso sempre dalle emozioni. Occorre considerare poi che l’essere umano è un essere mosso dalle emozioni e non dalla logica! Ogni volta che i livelli emotivi sono alti e i livelli di razionalità bassi prendiamo delle pessime decisioni.

Occorre sapere che le emozioni tendono a dissiparsi naturalmente e che il ciclo vitale fisiologico di un’emozione nel corpo e nel cervello è di circa 90 secondi. Quindi, le sensazioni, l’adrenalina, il calore sul viso, la gola stretta, i battiti accelerati, compaiono, raggiungono l’apice e si dissolvono da soli in un minuto e mezzo e ciò che mantiene le emozioni attive oltre i 90 secondi sono solo le storie che ci raccontiamo.

Nella negoziazione dobbiamo, inoltre, considerare che ciò che noi pensiamo e crediamo non è necessariamente cosa condivisa e condivisibile. Ognuno di noi ha la sua mappa delmondo che non coincide necessariamente con quella altrui. Siamo chiamati, dunque, a ricordare, come precisa sempre lo stesso J. Cambria, che la nostra non è l’unica verità. Dobbiamo esplorare, discutere e capire le percezioni degli altri.

Lo schema da tener bene in mente è quindi:

  • Controllo delle emozioni
  • Niente di personale
  • Percezioni diverse
  • Pensiero unico

La negoziazione richiede del tempo. Oltre alla preparazione, il negoziatore deve essere creativo e seguire la giostra emotiva della persona in stato di crisi.

Ulteriore suggerimento è conosciuto come le 3 E e le 3 A:

  • Etica
  • Ego (sotto controllo)
  • Empatia
  • Attenzione
  • Atteggiamento
  • Aggiustamento

Occorre esercitare sempre e comunque l’empatia, poiché se ignorate le preoccupazioni normali, fisiologiche o assurde che possano essere di una persona, causerete una rottura della comunicazione. Occorre esplorare, quindi, le posizioni della controparte ed ogni problema va ascoltato e trattato con rispetto e dignità. Se non partite da tale prospettiva, rinunciate a negoziare!

Se proviamo un senso di superiorità all’apertura di un negoziato, allora abbiamo già preso una decisione, e nulla di ciò che il nostro interlocutore dirà, potrà penetrare nel nostro cervello. Fingendo di ascoltarlo, rifiuteremo di considerare i punti che sta sollevando. L’atteggiamento giudicante interrompe, infatti, la comunicazione.

L’HNT suggerisce alcuni step strategici, conosciuti con l’acronimo Morepies:

  1. Incoraggiatori minimi
  2. Domande aperte
  3. Rispecchiare
  4. Etichettatura emotiva
  5. Parafrasare
  6. Messaggio «IO»
  7. Pause efficaci
  8. Riassunto

Altri suggerimenti: non fermatevi a domande chiuse o con scelta forzata; attenzione alle domande che possono sembrare accusatorie (perché hai fatto una cosa del genere); cercate di creare pause intenzionali per esortare l’altro a parlare; il silenzio è un’arma efficace a volte; riassumete i punti discussi fino a quel momento.

La comunicazione può essere ostacolata da svariate trappole:

  • Assunti e preconcetti
  • Criticare mentalmente lo stile comunicativo dell’altro
  • Essere sovraeccitati
  • Ascoltare solo i fatti senza fare attenzione alle emozioni
  • Annotarsi tutto quanto
  • Interrompere la controparte
  • Reagire eccessivamente a certe parole
  • Sognare a occhi aperti
  • Distrarsi con cellulare o altro.

Da evitare, quindi:

  • MA : il ma nega tutto ciò che è stato detto precedentemente. Provate a mettere la parte negativa del messaggio per prima seguita da quella positiva.
  • La parola NO dovrebbe essere evitata. Il NO elimina ogni altra opzione. Evitate: no, non posso, non riesco, non voglio, …
  • Usate perché con cautela. Spesso, con un certo tono di voce, viene percepito accusatorio, soprattutto quando una persona è in situazione di crisi. Sostituiamo il «perché» con il «come» ed evitate frasi tipiche quali: “So esattamente come ti senti. Con tutto il dovuto rispetto”, …
  • Adoperate strategicamente l’umorismo. Fatelo però con cautela.
  • Non vi ponete come parte che da consigli e che giudica.

La negoziazione è, infatti, una forma di comunicazione specializzata costellata da infinite trappole. Siate sempre vigili, rimanete sintonizzati sugli altri. Fate attenzione agli atteggiamenti, alle frasi e alle parole. Fate attenzione alla vostra faccia e al tono di voce. «Potranno dimenticare cosa hai detto, ma non dimenticheranno come li hai fatti sentire.»

Il manuale di negoziazione suggerisce:

  1. Evitate di essere critici
  2. Evitate di dare consigli sulla base di esperienze personali
  3. Evitate di analizzare il soggetto
  4. Evitate di esprimere giudizi
  5. Rispettare l’autonomia delle persone
  6. Consultate sempre l’altro. L’accordo deve essere comune
  7. Mostrate gratitudine: riduce lo stress della negoziazione e rafforza una relazione
  8. Un negoziato non è uno scontro fra due parti, ma un processo in cui le parti lavorano insieme per trovare una soluzione.

Ultertiore approfondimento ci può essere fornito dall’approccio 6 P:

  1. Preparazione
  2. Pianificazione
  3. Psicologia
  4. Pratica
  5. Pazienza
  6. Persistenza

Le tecniche di negoziazione si apprendono e soprattutto devono essere praticate. Negoziare è un expertise e non solo un’esperienza. Una pratica sbagliata, infatti, ripetuta tante volte, è comunque sbagliata!

  • Negoziare significa saper ascoltare
  • Negoziare significa creare un ottimo rapport
  • Negoziare significa essere creativi

La negoziazione è soprattutto cooperazione. Negoziare significa anche «essere duro con i problemi e morbido con le persone» (Harvard University).

 

 


  • È interessante l’esempio seguente della Scuola di Negoziazione di Harvard: «Due sorelle litigavano per un’arancia. Una di loro riteneva di averne più diritto in quanto l’aveva presa per prima, invece l’altra argomentava che il diritto spettava a lei essendo la primogenita».

La madre, nel tentare una soluzione imparziale, offrì di tagliare il frutto a metà: le bambine rifiutarono fermamente e non accettarono la soluzione proposta, continuando a litigare! La nonna, che osservava attenta la scena, decise di chiedere a ognuna delle bambine perché volevano l’arancia.

La più piccola rispose che aveva sete e l’altra che voleva la buccia per preparare una torta perché aveva fame.

Così la nonna grattugiò la buccia dell’intera arancia e la offrì ad una delle nipoti, spremette la polpa dell’intera arancia e la offrì all’altra.

Come vediamo, se la soluzione fosse stata impostata sulla base delle posizioni iniziali delle bambine, le diverse possibilità sarebbero state:

  1. aggiudicare l’arancia alla sorella maggiore
  2. aggiudicare l’arancia alla sorella minore
  3. dividere l’arancia a metà

Nessuna di queste soluzioni sarebbe stata in grado di soddisfare gli interessi delle sorelle. Gli accordi negoziati si basano sulla possibilità di rinforzare gli interessi comuni, transigere gli interessi opposti e raggiungere la maggior soddisfazione possibile riguardo gli interessi differenti.

  • Noi ascoltiamo 125-250 parole al minuto. Pensiamo a 1000-3000 parole al minuto. Il 75% de tempo siamo distratti. Generalmente, dopo aver ascoltato, ricordiamo il 50% di ciò che è stato detto, ma anche meno! Un’ora dopo, ricordiamo meno del 20%.
  • Interessante l’esempio raccontato da J. Cambria in Parliamone: “Due uomini si trovano in un bar e finiscono per parlare di Green Bay, Wiisconsin.

Il primo dice: «è davvero un bel posto»

Il secondo risponde: «cosa c’è di bello in quel posto? Le uniche due cose che vengono da lì sono i Packers, la squadra di football e delle baldracche repellenti»

«… aspetta un minuto, brutto stronzo» dice l’altro. «Mia moglie viene da Green Bay»

«Davvero? In che ruolo gioca?»”

  • Si legge ancora in Parliamone: “… un uomo stava riempiendo un secchio di stelle marine che erano state sbattute sulla spiaggia dal vento. Ogni volta che il secchio si riempiva, l’uomo andava a riva e lo svuotava. Poi, ritornava a fare la stessa cosa e di nuovo a riempire il secchio.

Ma cosa fai? Chiese un passante.

Riporto le stelle marine in mare, rispose.

Perché, è una cosa di scarsa importanza ora.

L’uomo lo guardò e rispose: «è importante per le stelle marine.»


  • Il presente capitolo farà parte del testo CRIMINAL, in fase di pubblicazione. Tutti i diritti sono riservati.
  • Per una trattazione specialistica in termini di Negoziazione cfr. Parliamone. Jack Cambria, ROI Edizioni, 2019. Il testo rappresenta una testimonianza interessante e pragmatica di uno specialista della negoziazione – Squadra di negoziazione ostaggi del Dipartimento di Polizia di New York, istituita nel 1973

 

Che cosa significa Assertività

L’assertività è la capacità di esprimere le proprie opinioni, i propri pensieri, i sentimenti, senza porsi sulla difensiva, in modo chiaro e aperto. Assertività è la capacità anche di avanzare richieste e di rifiutare, di contro, ciò che riteniamo inaccettabile.

Solitamente, dietro il fatto di essere poco assertivi, vi è il timore di un rifiuto, ovvero il NO …

L’assertività è un’abilità che concerne i rapporti interpersonali quindi,  ma può essere implementata con la pratica. Come vera e propria skill è collegata anche alle abilità persuasive, ma sopratutto alla capacità di osservazione e di ascolto.

Ascoltare è un’attività consapevole, differente dal sentire. Per ascoltare qualcuno o qualcosa occorre decidere di farlo. È l’abilità fondamentale da esercitare in qualsiasi contesto comunicativo ed è la più strategica. In pochi però sanno che, oltre ad essere direttamente connessa con l’assertività, comprende:

1.Orientamento all’ascolto

2. Capacità di concentrazione

3. Orientamento al feedback

4. Empatia

5. Capacità di programmare la comunicazione

Lavorare fa male … e la Felicità salverà le Organizzazioni

 

Vi sembrerà strano, ma nelle Organizzazioni moderne e in quelle future, ciò che conta e conterà sarà la Felicità!
Sembra un’affermazione romantica o lontana dal concetto di Business, ma vi assicuro che non è affatto così …
Per lavorare bene, per prosperare, per raggiungere risultati, le organizzazioni e le persone che ne fanno parte devono, banalmente, sentirsi bene, soddisfatte, protette e valorizzate. Al bando, quindi, ogni forma di stress!
Un po’ di numeri e percentuali daranno un primo quadro di ciò che sto illustrando:
– L’87% dei lavoratori è demotivato
– 500 miliardi di euro sono sprecati per mancanza di produttività
– Il 33% del calo di fatturato è dovuto al basso livello di engagement
– Si registra un aumento del 37% di assenteismo a causa dello stress
– Si registra una percentuale in aumento di incidenti sul lavoro (+49%) e il 60% è dovuto a errore umano


Questi dati europei potrebbero essere già sufficientemente allarmanti, ma forse non basta … Sembra che nei Paesi dove si lavora meno, ci sia meno disoccupazione e maggior ricchezza individuale e felicità (es. Francia e Germania). Si direbbe, quindi, che, spesso, si lavora troppo e male!
E ancora … in Europa, 40 milioni di lavoratori soffrono di stress lavorativo e 84 milioni hanno almeno un disagio psicologico. Nel 2020 la depressione sarà la patologia più diffusa!

Dall’altro lato, c’è il concetto di Benessere o la politica antistress che molte organizzazioni cercano di applicare. Io parlerei meglio di  wellbeing culture.
Già negli anni 20, lo studio Happy Productive Worker aveva dimostrato che il benessere dei dipendenti porta ad un aumento della produttività e dei profitti e gli studi di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni da allora, si sono moltiplicati e ad oggi sono numerosissimi. La produttività aumenterebbe del 30% e l’innovazione del 300%, inoltre si registra una riduzione del turnover del 55% e una diminuzione del burnout pari al 125%, con un’ulteriore riduzione del 66% dell’assenteismo per malattia!

Questi dati sono ovviamente incoraggianti, ma non sufficienti ancora per un cambiamento repentino di rotta, per un reale change management e per un effettivo mutamento della cultura del lavoro.
Insomma, non ci stancheremo mai di dire che lo stress lavorativo determina danni ingenti e se ancora non è sufficiente, il costo totale per disagi mentali collegati allo stress lavorativo è pari a 240 miliardi l’anno, con un 43% di costi diretti per spese sanitarie e 57% di perdita di produttività.

In Italia trascorriamo in media 1725 ore l’anno al lavoro. Circa il 30% della nostra vita attiva! A livello individuale, lavoriamo 243 ore più dei francesi e 354 ore più dei tedeschi! In aziende ad alto livello di stress, le spese di assistenza sanitaria sono quasi il 50% maggiori rispetto ad altre organizzazioni …
Il Center for American Progress stima che rimpiazzare un singolo collaboratore costa circa il 20% del suo salario, mentre in Italia, 11 milioni di persone usano psicofarmaci a causa dello stress lavoro correlato.

Dopo questa overdose di numeri e percentuali che spero rimbombino ossessivamente nella mente dei dirigenti o di chi si occupa di cultura organizzativa, ritorniamo al principio: qual è il ruolo della Felicità?
Il World Happiness Report è un’indagine storica sullo stato della felicità globale, che raggruppa 156 Paesi per il mondo in cui i loro cittadini si sentono felici. Il Paese più felice non è l’Italia ovviamente. Quest’anno risulterebbe essere quel tratto di terra che va da Helsinki alla Lapponia.
Gli indicatori principali sembrano quasi banali: sauna all’aria aperta; amore verso gli altri e l’ambiente circostante, uso appropriato di internet. Nella top ten rimangono nazioni come la Finlandia, la Danimarca, la Norvegia, l’Islanda, l’Olanda, la Svizzera, la Svezia, la Nuova Zelanda, il Canada e l’Austria. L’Italia è al 36° posto! Negli Stati Uniti, invece, aumenta l’infelicità a causa di un’epidemia di dipendenze (sostanze, gioco d’azzardo, media digitali).


Un’altra considerazione che sorprenderà: utilizzo della tecnologia, ma con moderazione! In Italia e in altri Paesi, invero, si parla già di “telepressione del luogo di lavoro” (wokplace telepressure) che aumenterebbe il livello di esaurimento fisico e mentale nel lavoratore. Insomma, non sappiamo usare saggiamente neanche il progresso tecnologico …
Ancora alcuni numeri a tal proposito:
– Un’interruzione di 2.8 secondi (tempo necessario per leggere un breve messaggio su watsapp) può raddoppiare il tasso di errore anche su compiti semplici.
– Un’interruzione di 4,4 secondi (tempo necessario per inviare un messaggio) può triplicare il rischio di commettere errori.
– Un impiegato d’ufficio controlla mediamente le email 30 volte l’ora.
– Ogni volta che un lavoratore si distrae, impiega una media di 25 minuti per ritornare a concentrarsi su ciò che stava facendo.
– Il 67% dei proprietari di uno smartphone controlla il suo dispositivo anche quando non riceva alcuna notifica.
– Il 44% dorme con il cellulare accanto al letto.
– Il 29% non riesce ad immaginare una vita senza uno smartphone.
– Il 55% dei lavoratori dichiara di controllare le email dopo le 23.

Sarà sufficiente? Bhè, la felicità richiede anche, talune volte, di fermarsi a riflettere e se pensate di non avere tempo poiché lavorate troppo, questo articolo è proprio per voi …

7 punti per una Comunicazione Efficace

Comunicare è un processo complesso e articolato. Non sempre è facile intendersi con gli altri o banalmente, andare d’accordo, neanche quando conosciamo la persona o supponiamo di conoscerla! Comunicare è arte difficile e per essere efficaci occorre considerare una serie di fattori e dinamiche non solo razionali, ma anche e soprattutto inconsce. Non è un caso che, ad esempio, almeno il 90% dell’efficacia comunicativa “risieda” nel Non Verbale (mimica, pantomimica, prossemica, cinesica, cronemica).


Per essere efficaci e anche persuasivi occorre tener conto di alcuni punti fondamentali. Tali punti rappresentano una vera “scaletta” operativa e diventano, dunque, fondamentali durante un qualsiasi processo comunicativo.

1. L’attenzione: per comunicare efficacemente occorre essere, banalmente, attenti. Mi riferisco però, soprattutto, ad un’attenzione orientata, un’attenzione verso l’altro. Purtroppo siamo sbadati o poniamo poca attenzione durante la comunicazione e perdiamo parte delle informazioni, inoltre, risulteremo all’altro distratti o disinteressati. Quando parliamo con qualcuno, dobbiamo assumere una formamentis specifica: “sto parlando con la persona più importante della mia vita in questo momento”. Solo in questo modo, presteremo la giusta attenzione!

2. Ascolto attivo: stiamo impegnati, spesso, ad ascoltare noi stessi o pensiamo a programmare ciò che diremo, senza ascoltare effettivamente ciò che comunica l’altro è soprattutto come lo comunica. Occorre, in realtà, “sentire” l’altro, attraverso una predisposizione alla comprensione empatica. Per chi avesse difficoltà nell’ ascolto, consiglio un po’ di “ecolalia”, ovvero ripetizione mentale delle parole dell’altro. L’ascolto attivo è legato all’attenzione, alla capacità di programmare la comunicazione, all’empatia.


3. Assertività: capacità di comunicare concetti e stati d’animo senza remore o timori, ovviamente senza ledere l’altro. Significa esprimere ciò che pensiamo o proviamo quindi in una data situazione o momento. Sembra strano, ma occorre esercitarsi, poiché per svariate ragioni, ansie o timori, non sempre “diciamo la nostra”!

4. CNV: occorre essere competenti in ambito comunicazione non verbale e linguaggio del corpo. Il tono di voce, lo sguardo, la postura, la gestione delle distanze e dello spazio sono solo macroaree della CNV. Consiglio a tutti di perfezionare tale repertorio universale e di approfondire anche le espressioni emotive del viso. La verità, in fondo, passa sempre dal corpo!

5. PNL: programmazione neuro linguistica. È una specifica branca della comunicazione che contiene concetti e tecniche utili e strategiche. Può essere considerata anche una vera formamentis, un modo di lettura del mondo circostante. Per chi volesse approfondire, esistono tanti corsi ormai in giro …

6. Simbolismo: quando comunichiamo, oltre a gesticolare, esponiamo inconsciamente anche dei simboli. Sono simboli molto potenti e non è un caso che vengono usati anche nell’ipnosi dinamica. Attraverso l’uso e la gestione dei simboli, possiamo risultare più “attraenti” durante la conversazione o, al contrario, meno incisivi e più conflittuali. Solitamente, si parla di simbolismo Asta, Cerchio, Triangolo. Tale ambito merita un approfondimento specifico!


7. Persuasione: per essere persuasivi non basta essere motivati, ovvero mossi da uno scopo, da un obiettivo. La persuasione è un’arte raffinata che non deve “risultare”manipolazione. In realtà, la differenza, a mio avviso, è nell’etica della persona! Esistono diversi principi sul processo persuasivo, che se esercitati con armonia, risultano davvero decisivi nella comunicazione. Reciprocità, simpatia, riprova sociale, autorità, coerenza, scarsità sono i principi della persuasione. Consiglio un approfondimento con le opere di Cialdini.

Cammelli, arance e Gestione del Conflitto

L’ESSENZA DELLA GESTIONE DEL CONFLITTO

Tempo fa, in un piccolo villaggio del Medio Oriente, un uomo lasciò in eredità ai suoi tre figli 17 cammelli: al primo figlio lasciò la metà dei suoi cammelli, al secondo un terzo dei cammelli e al più giovane un nono dei cammelli.
Però 17 non si divide per due, né per tre o per nove!
Il sangue dei fratelli cominciò a ribollire, ma prima di commettere atti sconsiderati e irreparabili come quello di segare un cammello in più parti, i tre chiesero consiglio all’anziano saggio del villaggio.

Secondo te che cosa propose il vecchio saggio?

«Non so come aiutarvi, ma se volete posso prestarvi il mio cammello». Così ebbero 18 cammelli.
Il primo figlio se ne prese la metà (9)
Il secondo un terzo (6)
Il figlio più giovane prese il nono (2)
Tot: 9+6+2= 17
Avanzò un cammello, che restituirono al vecchio saggio!

Questo piccolo dilemma (Scuola di Negoziazione di Harvard) è un classico esempio di Gestione del Conflitto.
Per risolvere i conflitti occorre lavorare sulla struttura profonda della problematica, una struttura fatta di interessi e motivazioni delle persone. Non è sufficiente, né consigliabile fermarsi alla struttura superficiale, fatta solo di posizione assunte dalle parti.

Un altro esempio.
«Due sorelle litigavano per un’arancia. Una di loro riteneva di averne più diritto in quanto l’aveva presa per prima, invece l’altra argomentava che il diritto spettava a lei essendo la primogenita».
La madre, nel tentare una soluzione imparziale, offrì di tagliare il frutto a metà: le bambine rifiutarono fermamente e non accettarono la soluzione proposta, continuando a litigare!
La nonna, che osservava attenta la scena, decise di chiedere a ognuna delle bambine perché volevano l’arancia.
La più piccola rispose che aveva sete e l’altra che voleva la buccia per preparare una torta poichè aveva fame.
Così la nonna grattugiò la buccia dell’intera arancia e la offrì ad una delle nipoti, spremette la polpa dell’intera arancia e la offrì all’altra.
Come vediamo, se la soluzione fosse stata impostata sulla base delle posizioni iniziali delle bambine, le diverse possibilità sarebbero state:

1. aggiudicare l’arancia alla sorella maggiore
2. aggiudicare l’arancia alla sorella minore
3. dividere l’arancia a metà

Nessuna di queste soluzioni sarebbe stata in grado di soddisfare gli interessi delle sorelle.
Gli accordi negoziati si basano, quindi, sulla possibilità di rinforzare gli interessi comuni, transigere gli interessi opposti e raggiungere la maggior soddisfazione possibile riguardo gli interessi differenti.
Nel nostro esempio, gli interessi delle sorelle sono allo stesso tempo comuni (l’arancia) e differenti (una voleva la spremuta e l’altra una torta).

La risoluzione dei conflitti è legata anche alla creatività e alla capacità di uscire fuori dagli schemi.

 

Realtà Virtuale tra Neuroscienze e Psiche

Negli ultimi anni, la realtà virtuale (VR) ha guadagnato un ruolo di rilievo nelle neuroscienze, trasformandosi da semplice …

Ipnosi MIND

Partiamo da … che cosa non è l’ipnosi. L’Ipnosi non è: – Una forma di manipolazione mentale. – Uno …

L’esperienza fuori dal corpo (OBE)

L’esperienza fuori dal corpo (OBE): una finestra sulla natura della coscienza Le esperienze fuori dal corpo (OBE, dall’inglese …