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Neuropsichiatria infantile

‘Curare significa innanzitutto prendersi cura

‘Per educare è importante saper spiegare, ma lo è ancor più saper capire, dando risposte attraverso piccoli gesti’

‘Un uomo che guarda negli occhi il proprio bambino inizia con lui un viaggio; quando assieme volgeranno lo sguardo  all’orizzonte, saranno genitore e figlio’. 

‘Lo sviluppo psico – affettivo richiede attenzione, coerenza, perseveranza. Bisogna combattere l’indifferenza, la perdita di riferimenti cui siamo esposti e dare seguito alle promesse.’

‘La mente di un bambino si nutre  del nostro corpo, dei nostri pensieri, della nostra presenza, che sa essere vigile anche quando impegnata e silenziosa,

‘Maturare affettivamente e cognitivamente non sempre richiede un progresso, un successo. Talvolta serve sperimentare un fallimento, una battuta d’arresto. Talvolta meglio cedere onorevolmente la scena al turbamento delle emozioni.

dr ANTONIO SANTORO

Ho rivolto la mia attenzione sia al mondo dei bambini che a quello degli adulti, nella loro dimensione genitoriale, di coppia e personale, convinto che la cura presupponga il prendersi cura e non possa prescindere dalla considerazione delle esperienze infantili, a tutte le età.

Ho lavorato a Milano sino al 2016 presso l’ASST Niguarda Cà Granda di Milano come referente clinico della struttura per adolescenti borderline e come consulente ospedaliero per le urgenze psicopatologiche per adolescenti con gravi disturbi comportamentali nei principali reparti di degenza, oltre che in Psichiatria (SPDC) ed in DEA.

Dal gennaio 2017 vivo a Lecce dove continuo ad occuparmi di residenzialità terapeutica e dove svolgo anche attività ambulatoriale libero professionale.

I principali ambiti di intervento riguardano problemi di apprendimento scolastico, disturbi del comportamento, psichiatria trans-culturale, psicoterapie di gruppo, training di potenziamento cognitivo, trattamenti psicofarmacologici.

collaboro inoltre con i Consultori familiari ed il Tribunale per i Minori anche in veste di Consulente Tecnico.

 

INFO    www.neuropsichiatralecce.it

Motivazione e SPORT

Motivazione e Sport.

 

Esistono diverse definizioni di motivazione. Potremmo definirla, però, in senso pragmatico e chiaro, riprendendo una definizione di Antonelli come “la causa di un determinato comportamento”.

Il tema della motivazione è di strategica rilevanza nello sport così come, in genere, riveste un aspetto chiave in altri contesti della nostra vita.

La motivazione è una vera “spinta” a compiere una determinata azione allo scopo di raggiungere un obiettivo fissato. Motivazione, quindi, come azione a raggiungere un qualcosa.

Oggi, le richieste più frequenti degli atleti e degli stessi allenatori sono proprio legate agli aspetti motivazionali: come mai un atleta è più motivato rispetto ad un altro? Come mai esistono i cali motivazionali? Come faccio a motivare maggiormente l’atleta? Come faccio a motivarmi? Quesiti normalissimi che celano dinamiche e processi complessi.

Parallelamente, è interessante indagare gli aspetti che spingono le persone, indipendentemente dall’età e dal genere, a praticare sport. In genere, le persone fanno sport per svariate ragioni, dalle più semplici ed ovvie alle più articolate. I diversi programmi di allenamento nello sport che non tengono conto del complesso motivazionale sono, in realtà, destinati a fallire.

Uno dei primi modelli analizzati per cercare di comprendere le motivazioni sportive è quello di Birch e Veroff (1966) che precisava sette motivi che dirigono il comportamento umano:

  • AFFILIAZIONE
  • POTERE
  • INDIPENDENZA
  • STRESS
  • ECCELLENZA
  • SUCCESSO
  •  AGGRESSIVITA’
  • Tali motivazioni fondamentali furono prese in considerazione nelle prime ricerche descrittive degli anni ’70. Emerse, pertanto, che le persone fanno sport soprattutto per fare amicizia e per esprimere le proprie potenzialità. Altre ricerche in tal senso, sottolinearono, invece, il ruolo strategico del diverstimento nello sport e l’acquisizione di abilità sportive.

Alla stregua, gli stessi studi esplorativi evidenziarono che l’abbandono sportivo era soprattutto dovuto a incomprensioni tra allenatore e atleti, alla noia e ripetitività degli allenamenti, agli infortuni, all’eccessiva importanza data agli aspetti competitivi.

Uno studio molto interessante, allargato in molti Paesi europei fu anche quello di Gill, Gross e Huddleston del 1983. Le indagini effettuate attraverso questionari costruiti appositamente per lo studio delle motivazioni, permisero di raggruppare otto fattori che spiegano la motivazione nello sport:

  1. Risucita/status.
  2. Squadra.
  3. Forma fisica.
  4. Spendere energia.
  5. Rinforzi estrinseci.
  6. Miglioramento delle abilità sportive.
  7. Amicizia.
  8. Divertimento.

Acquisizione di competenza sportiva, divertimento, competizione, stare in squadra, risulterebbero le motivazioni principali nelle attività sportive giovanili.

Successive ricerche descrittive misero in evidenza che le ragazze attribuiscono maggiore rilevanza all’amicizia e alla forma fisica, mentre i ragazzi maggiormente all’acquisizione di uno status, al vincere e ai premi. Indipendentemente dall’età, altre ricerche correlate sugli aspetti motivazionali, rilevarono come lo sport è importante soprattutto perché viene associato al miglioramento della propria salute e a un senso generale di benessere.

Altre ricerche, condotte anche in Italia, si sono poi soffermate sulle differenze motivazionali nello sport a seconda dello status socio-culturale, in una prospettiva, quindi, interculturale.

 

Principali teorie sulla motivazione.

 Seguendo uno dei primi lavori in materia di psicologia dello sport, Antonelli e Savini ripercorrono le teorie principali sulla motivazione: l’interpretazione istintiva, l’interpretazione biologica, l’interpretazione etologica, l’interpretazione organismica, la riflessologia, l’interpretazione di Lewin, quella di Allport, l’interpretazione di Miller e Dollard, l’interpretazione psicodinamica con i contributi di Freud, Jung, Adler, Fromm, Sullivan e Murray e l’interpetazione antropo-sociologica.

Diversi studiosi, con le loro diverse teorie di riferimento e anche convinzioni hanno dato il loro apporto allo studio della motivazione umana. Quali sono le motivazioni legate maggiormente allo sport?

Un fattore motivazionale, primario, molto rilevante legato allo sport è senza dubbio il gioco. Il gioco ricopre un ruolo chiave e strategico nell’uomo, indipendentemente dall’età, dal genere, dallo status di appartenenza. Direi che il gioco, è un lavoro serio! Il gioco assolve, inoltre a differenti funzioni, da quella cognitiva e formativa, a quella affettiva ed emotiva sino a quella psicologica, pedagogica o andragogica e psicoterapica. Non è certo un caso che oggi, molte attività in-formative effettuate con gli adulti vengono organizzate e gestite proprio attraverso modalità ludiche (es. giochi di ruolo, giochi di squadra, team bulding).

Un’altra motivazione che spinge alla pratica sportiva è senza dubbio l’agonismo. Esso è legato all’esigenza naturale da parte dell’uomo di sfidare e sfidarsi ed è connesso, per certi aspetti, all’aggressività. Lo sport assumerebbe, di conseguenza, anche una valenza catartica, di sfogo, appunto dell’aggressività umana.

Tra i fattori della motivazione sportiva occorre anche considerare: i fattori psico-biologici, i fattori psicologici, i fattori socio-culturali, i fattori psicopatologi.

Si riporta, di seguito, uno schema riassuntivo adattato che parte dal lavoro di Antonelli e Salvini.

FATTORI MOTIVAZIONALI

  • Psico-biologici: omeostatici, autoplastici.
  • Psico-patologici: inferiorità, desiderio di potenza, narcisismo, virilità.
  • Socio-culturali: affiliazione, approvazione sociale, achievement, economico, mobilità sociale.
  • Psicologici: affettivo, comunicativo, emulativo, individualizzante, proiettivo, catartico, etico ed estetico.

La motivazione sportiva secondo Bouet sarebbe legata ad alcune motivazioni di base:

  1. Il bisogno di movimento, come esigenza di spendere energie in senso biologico.
  2. L’affermazione di sé, intesa in senso personale e sociale.
  3. La compensazione, concetto per certi versi simile a quello di sublimazione attraverso il quale l’individuo sostituirebbe con lo sport altre attività negate per svariate ragioni.
  4. L’aggressività, intesa in senso costruttivo e al contempo negativo.
  5. L’affiliazione sociale, come contatto umano e intenzione di far parte di un gruppo.

Vanek e Cratty mettono a punto una teoria definibile “multifattoriale” che spiegherebbe la strutura motivazionale nell’atleta superiore. In tale concezione toerica, i diversi fattori motivazionali sarebbero poi messi in relazione con le perofrmances sportive, gli obiettivi raggiungibili e raggiunti e la relativa interpretazione del successo o dell’insuccesso.

Occorre giungere agli studi ipotetico-deduttivi di Murray, McClelland e Atkinson per parlare di motivazione in termidi di raggiungimento del successo o evitamento dell’insuccesso. La motivazione al successo sarebbe legata alla formza dell’orientamento al successo, alla probabilità percepita di avere successo e al valore incentivante del successo. La motivazione ad evitare l’insuccesso sarebbe connessa ai medesi fattori prima analizzati ma in senso opposto. Inoltre, i sentimenti conseguenti di orgoglio o vergogna derivanti dal successo o dall’insuccesso giocherebbero un ruolo determinante nei successivi comportamenti di nuovo approccio o di evitamento.

L’approccio di McClelland e Atkinson ha evidenziato che gli atleti che possiedono un elevato desiderio di successo hanno prestazioni migliori rispetto a chi mostra una bassa attesa di successo. Tali affermazioni trovano conferma in altre ricerche e nel concetto moderno di Self-efficacy (autoefficacia).

La motivazione, in realtà, non può essere legata solo a fattori soggettivi e personologici e tale constatazione era già stata intuita tempo fa con i primi studi pioneristici. La motivazione, infatti, è influenzata anche dai così detti fattori situazionali. L’uomo, come essere bio-psico-sociale è inserito in un contesto e tale contesto ne influenza il comportamento e non solo.

Nicholls identifica due principali orientamenti motivazionali: l’orientamento al compito e l’orientamento al Sé. Gli sportivi orientati al Sé praticano sport strettamente per esigenza di competere, per motivi di status sociale, per ricevere riconoscimenti. Gli sportivi orientati al compito avrebbero maggiore bisogno di sviluppare abilità fisiche in rapporto anche al mantenimento della forma fisica.

Altri studi interessanti condotti intorno agli anni ’90 sulla motivazione e sulla prestazione sportiva evidenziano come i giovani preferiscano ricevere rinforzi positivi da parte degli allenatori, ma anche indicazioni e tecniche su come migliorare la performance. Ciò aumenterebbe la percezione di competenza. È emerso, inoltre, che i giovani con maggior autopercezione di competenza attribuiscono il successo a componenti interne, più stabili e con elevato controllo personale. Tali studi coincidono con il concetto moderno di “locus of control interno” vs “locus of contro esterno”, ovvero sull’attribuzione dei successi.

Tali ricerche e studi in tema di motivazione dovrebbero essere ben conosciute dagli allenatori o dai preparatori atletici che spesso, motivano l’atleta in modo distorto e attraverso meccanismi paradossalmente poco motivanti o stimolanti ai fini della prestazione ottimale. La percezione di competenza e l’attivazione derivante dall’effettuare una sfida sono elementi che fanno parte della motivazione intrinseca. In ambito sportivo, l’orientamento al compito fa aumentare la motivazione intrinseca, mentre l’orientamento al Sé può causare una riduzione dell’interesse. Inoltre, chi è orientato al Sé mostra anche meno piacere dal gioco, indipendemente dal risultato.

Semplificando le correnti di pensiero, gli studi e le diverse teorie, si può pragmaticamente definire la motivazione come un processo che governa le scelte e al contempo un fenomeno che ha una direzione, un’intensità, aspettative e bisogni.

Un’interessante classificazione proviene da Kanfer (1990) che raggruppa gli approcci moderni alla motivazione principalmente in tre filoni principali: le ricerche sui bisogni-motivi-valori, quelle sulla scelta cognitiva o dinamica dell’azione e quelle sull’autoregolazione.

Nel paradigma bisogni-motivi-valori il ruolo fondamentale è la motivazione intrinseca e le determinanti personali del comportamento, ovvero la soddisfazione dei bisogni. I bisongi, i motivi e i valori sono considerati obiettivi o mete personali che possono mutare in accordo alle caratteristiche stabili degli individui e/o con la rappresentazione dell’ambiente circostante.

Il paradigma della scelta cognitiva enfatizza in primis l’agito comportamentale e la prestazione in sé. L’attenzione è dunque sulle aspettative.

Gli approcci dell’autoregolazione ricalcano la mente e le sue intrinseche proprietà di autoregolazione in risposta all’ambiente allo scopo di esercitare un certo livello di controllo.

Le teorie dei bisogni fanno riferimento dunque a bisogni fisici-psicologici e ai concetti di sopravvivenza e benessere. Le teorie del valore sottolineano ciò che l’individuo desidera e i valori assumono, in questo, anche connotati morali. Nelle teorie dell’obiettivo, il raggiungimento di esso diventa strategico e appare come qualcosa di specifico.

Altri orientamenti teorici si concentrano sull’aspettativa di successo e studiano le convinzioni personali sulle proprie capacità e sul controllo dei risultati. Altre teorie riguardano, invece, il valore attribuito al compito e approfondiscono le ragioni della scelta e sono quelle che fanno la distinzione tra motivazione intrinseca ed estrinseca. La teoria del self-worth del 1998 che affronta il bisogno di mantenere un alto valore di sé e infine, le teorie che cercano di integrare motivazione e congizione (2003) che studiano il ruolo delle strategie cognitive nei processi motivazionali.

Cosa sapere in più sulla motivazione.

 

Personalmente ritengo che per raggiungere un obiettivo non basti solo la motivazione. È anche questione di personalità, di grinta, di carattere, … Inoltre, in alcuni casi, viene “sopravvalutata” la motivazione come aspetto fondamentale di una qualsiasi pratica sportiva.

Anche un topolino è capace di lottare a lungo contro le difficoltà presenti in un labirinto per raggiungere un enorme pezzo di formaggio di difficile accesso, ma prima o poi, se l’obiettivo non viene raggiunto, quell’impegno svanisce e il topolino si arrende.

Per potersi focalizzare su di un obiettivo gli animali hanno bisogno della prospettiva di una gratificazione a breve termine. Questo vale spesso anche per l’uomo.

Di fatto, nessun animale è in grado di impegnarsi e perseverare per realizzare un obiettivo incerto, immateriale e molto sfidante. Nessun animale, eccetto l’uomo! Ed è proprio questa, a mio avviso, la chiave aurea della motivazione.

Sovente, spingere, convincere, motivare appunto gli altri, nello sport come in altre situazioni della vita, è importante, ma non è sufficiente.

Occorre fare i conti con altre “questioni”.

In generale, le persone potrebbero avere paura di fronte alla scoperta delle proprie possibilità e in alcuni casi fingono di non avere del potenziale. Lo stile di vita, la frammentazione dell’attenzione e un atteggiamento di passivizzazione e distruzione dell’intenzionalità, esasperato sicuramente anche dai tempi moderni (es. utilizzo spasmodico della tecnologica e dei social media) incidono, non solo sull’attenzione e la motivazione, ma anche sui “cali motivazionali.”

La motivazione estrinseca, allora, ha le sue falle!

Se la motivazione non dipende da me, ma dal mondo esterno, cosa posso farci?

Tutto ciò potrebbe paradossalmente essere rassicurante, perché permette di incolpare il mondo quando non abbiamo voglia di fare. Ci risparmia la fatica di impegnarci. Ma niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un’occupazione. (Pascal)

Le persone, in realtà, e a maggior ragione anche i bambini, per stare bene, hanno bisogno di stimoli, di interessi e di cose che li impegnino.

Come allenatori e come genitori dovremmo sapere che il «bastone», cioè l’uso di uno stile autoritario, della costrizione o di punizioni non è molto efficace per motivale le persone. Sul breve funziona, ma sul lungo termine è fallimentare. La direttività, infatti, deresponsabilizza e plasma persone inette o meri esecutori in attesa di ordini.

Anche l’incentivo va soppesato strategicamente. Esso, infatti, funziona, ma a breve termine. Una ricompensa che sarà resa disponibile dopo anni non ha nessun effetto sul livello di impegno del soggetto. In questo è molto importante fissare alcuni sotto-obiettivi.

Ma occorre anche sapere che l’incentivo e l’impegno sono correlati solo in fase iniziale: se aumentano i premi, l’impegno aumenta in maniera proporzionale, ma solo fino ad un certo punto. Infatti, potremmo schematizzare nel seguente modo:

  • L’incentivo stimola il soggetto a conseguire una meta solo se il raggiungimento della stessa non implica troppo rischio, sofferenza o troppa fatica.
  • L’incentivo aumenta leggermente la produttività in compiti di tipo algoritmico (es. procedura ben definita) ma non in quelli creativi.
  • Gli incentivi funzionano moderatamente: quando gli obiettivi sono chiari, routinari, poco sfidanti e raggiungibili in tempi brevi.

La chiave aurea diventa la motivazione intrinseca, Motivare, infatti, è più vicino al termine Educare (tirare fuori, far uscire). La motivazione intrinseca è la capacità di attivarsi sulla base di un’intenzione interna e non ha bisogno di ricompense esterne. La rinuncia avviene allora quando la persona, pur spronata, motivata dall’esterno (un buon allenatore, una ricompensa, un obiettivo, …) non trova, durante la strada, quella personale spinta interiore, insieme al piacere di farcela, di sentirsi capaci, di essere all’altezza.

Ogni pratica sportiva, per “durare” nel tempo, dovrebbe anche portare la persona verso una sorta di esplorazione personale. Ritengo che lo sport sia, infatti, un vero percorso …

 

 

 

 

 

 

 

dimmi come cammini e ti dirò chi sei mirco turco

Self Talk e Prestazioni Sportive

“Parliamo, parliamo e non ci intendiamo mai” diceva Luigi Pirandello. La comunicazione è un’arte sicuramente complessa ed articolata. Ma cosa accade quando “parliamo con noi stessi”? Cosa ci raccontiamo? Utilizziamo termini positivi, potenzianti o etichette negative e sprezzanti?

Una delle caratteristiche umane universali è quella di “parlare con se stessi” ed è un’attività che effettuiamo, più volte al giorno, in modo più o meno consapevole. Se dovessimo indagare, ad esempio, sul tono di questa vocina interna, avremmo già alcune difficoltà e comunque, dovremmo concentrarci meglio per scoprirlo. In effetti, la vocina interna che contraddistingue questo nostro dialogo non è sempre la stessa e soprattutto, non dice sempre cose positive!

In generale, una parte dei nostri pensieri si traduce in linguaggio ed è altrettanto vero che lo stesso modo di comunicare e il contenuto di tale comunicazione possono influenzare il nostro pensiero. In molti contesti, da quello privato a quello lavorativo, sino a quello sportivo dovremmo essere consapevoli che esiste un’intelligenza diversa dalle altre e che ha un peso fondamentale nella nostra esistenza: l’intelligenza linguistica. In ambio sportivo, l’intelligenza linguistica può essere considerata anche come l’abilità dell’atleta di utilizzare un dialogo positivo con se stesso. Cosa significa?

Esistono svariate esperienze, anche personali, che dimostrano che il dialogo che rivolgiamo a noi stessi spesso si traduce in prestazioni disfunzionali o scarsi risultati. Esempi: “ … sarà impossibile raggiungerlo …”; “ … non riuscirò mai …”; “… mi sento troppo ansioso …”; … Questo primo esempio di comunicazione negativa con noi stessi determina un inevitabile insuccesso. E’ come se dicessimo che la profezia si auto-avvera. In un certo senso, la mente è letterale.

Un tipo di self-talk negativo, oltre a determinare un risultato negativo, compromette il raggiungimento degli obiettivi, decrementa l’attenzione e fa implementare la focalizzazione su stimoli irrilevanti o distraenti che, di conseguenza, generano anche preoccupazioni eccessive, stress, alterazioni dell’umore, confusione, panico. Un corretto self-talk è essenziale, dunque, nella preparazione di un qualsiasi atleta.

Ripetere a se stessi frasi positive, incoraggiamenti, brevi istruzioni, parole stimolo, ancoraggi, costituisce il nucleo centrale della tecnica del self-talk. Apparentemente semplice, la tecnica richiede un certo allenamento, costante e istruzioni precise. Il supporto di uno psicologo esperto diventa così fondamentale.

Occorre fare attenzione al tipo di comunicazione con noi stessi soprattutto quanto utilizziamo alcune frasi. Dire “non devo distrarmi” è differente dal dire “devo concentrarmi”. Il non dovrebbe essere, infatti, evitato. Il cervello lo elabora lentamente e prima di poter negare un pensiero, la mente stesse deve priva visualizzare tale pensiero. Provare per credere: “non immaginare un grosso elefante grigio con un canarino giallo sulla proboscide” …

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La tecnica del self-talk è utile per l’acquisizione di nuove abilità e per il miglioramento delle performance già sperimentate. Istruzioni semplici darebbero maggiori benefici per compiti sportivi caratterizzati da precisione e tecnica, mentre incoraggiamenti e frasi motivanti porterebbero miglioramenti se applicati su compiti che richiedono forza o resistenza.

Alcuni studi evidenziano che il self-talk è efficace sulla prestazione sportiva perché implementa la capacità attentiva dell’atleta. Egli, cioè, si concentrerebbe maggiormente verso stimoli positivi orientandosi maggiormente su parti essenziali dell’allenamento e della gara. Di conseguenza, vengono attivate le risorse giuste e indicate per condurre una ottimale prestazione sportiva.

Banalmente o meno banalmente, il dialogo interno positivo influenza anche l’autostima, la sicurezza e la self-efficacy (auto-efficacia). A parità di condizioni e caratteristiche, l’atleta che dialoga internamente con se stesso in modo positivo sarà più efficace. Questo, in realtà, accade anche in altri contesti. Il self-talk risulterebbe utile, di conseguenza, per ridurre l’ansia e per implementare reazioni emotive positive.

Che tipo di frasi strutturare? Alcune evidenze suggeriscono di utilizzare un linguaggio in seconda persona soprattutto per frasi brevi e concise. Suggerimenti più lunghi e affermazioni più articolate dovrebbero essere pronunciate in prima persona. Il linguaggio in seconda persona verrebbe maggiormente percepito con un senso di maggiore autorità e importanza.

Il self-talk svolge, dunque, due funzioni fondamentali: quella cognitiva e quella motivazionale. Da alcune ricerche, emerge che gli atleti utilizzano maggiormente un self-talk motivazionale, soprattutto per focalizzare meglio il compito e l’obiettivo, per aumentare l’autostima, per implementare la prontezza mentale e per gestire situazioni di maggior stress, difficoltose o dolorose.

In un interessante schema si evidenzia come il self-talk cognitivo venga usato soprattutto per sviluppare nuove abilità. Quello motivazionale, invece, soprattutto, per implementare la focalizzazione.

 

La tecnica del self-talk, quì illustrata brevemente, è solo una delle tante possibili applicazioni concernenti la psicologia applicata allo sport. Ad oggi, esiste un bagaglio ricco e articolato di conoscenze e competenze in materia che diventano essenziali e strategiche nel mondo sportivo odierno e utili ad ogni età.

 

 

Riferimenti:

 Hardy, K. Gammage, C. Hall. (2001). A descriptive study of athlete Self-Talk. The Sport Psychology, 2001.

Hatzigeorgiadis, Y. Theodorakis. (2009). Mechanisms underlying the self talk – performance relationship. Psy of Sport & Exercise, 2009.

Mirco Turco. (2013). Che cos’è la psicologia dello sport. Unione Italiana Sport per Tutti, Lecce.

Mirco Turco (2016). Che cos’è il Self Talk. Unione Italiana Sport per Tutti, Lecce.

Conoscere e gestire lo STRESS. Consigli per Genitori e Bambini

Lo stress non è una malattia, ma una condizione necessaria nella vita ed è una forma di adattamento. Ogni volta che dobbiamo “affrontare” qualcosa di nuovo, proviamo stress. Lo stress potrebbe addirittura essere considerato “vitale” e serve per far crescere l’individuo. In fase di crescita e sviluppo è molto importante sperimentare situazioni di stress ed è sconsigliato al genitore, fare “piazza pulita”, eleminare gli ostacoli, “spalare la neve” …

L’aragosta, ad esempio, cresce grazie alle sfide dell’oceano. Esce dal suo guscio, infatti, affronta i predatori e le varie difficoltà e solo dopo edifica il suo guscio protettivo. Per crescere, nuovamente dovrà uscire dal suo guscio e affrontare i vari stress. Successivamente edificherà il nuovo guscio e così via, pian, piano …

Le cose cambiano, ovviamente, se siamo eccessivamente esposti ad uno stimolo stressante, ad una situazione pesante, ad una realtà opprimente. Lo stress, di fatto, non è questione di peso, ma di tempo. Per quanto tempo dobbiamo tollerare il peso? Quanto durerà la situazione stressante?

Occorre considerare che lo stress ha le sue fasi e in generale, ne possiamo distinguere essenzialmente 3:

  1. Una fase di allarme, in cui l’organismo attiva le sue risorse.
  2. Una fase di spinta, in cui l’organismo si mobilita.
  3. Una fase di esaurimento, in cui l’organismo abbassa le sue difese.

Conoscere lo stress significa anche e soprattutto sapere come “agisce” su di noi, sui nostri bambini, sugli altri e il mondo circostante. La domanda fondamentale, oggi, è: come ci comportiamo sotto stress?

Le situazioni di stress implicano un sovraccarico di conflittualità e tale sovraccarico determina una serie di emozioni nell’uomo. Sarà più probabile, ad esempio, vivere ansia, rabbia, tristezza, dolore, colpa, imbarazzo, noia. Si aggiungono i sentimenti di insufficienza, inferiorità, insicurezza con un incremento della dipendenza verso gli altri. Aumentano, inoltre, fastidio, frustrazione e malessere in generale.

Le situazioni di stress aumentano l’aggressività, ovvero l’esigenza di atteggiamenti e comportamenti distruttivi e punitivi. Aumenta, in generale, anche l’esigenza di movimento corporeo e di irrequietezza.

Aumenta in modo sensibile anche il bisogno di congruenza e la necessità di evitare ulteriori conflitti, così come l’intolleranza verso tutto ciò che è ambiguo, irregolare, indeterminato, complicato. La persona comincia ad avere maggiori esigenze di ordine, coerenza, chiarezza, regolarità.

Lo stress causa l’intolleranza all’incongruità e con essa si registra un innalzamento delle attribuzioni di causalità, con la tendenza a dare e accettare spiegazioni.

Sotto stress si registra un’inibizione degli aspetti creativi e immaginativi e gli stati emotivi negativi e di sofferenza che ne derivano causano comportamenti stereotipati.

Lo stress determina anche reazioni difensive poco adeguate, come ad esempio la regressione. Inoltre, la persona tende maggiormente a lamentarsi del proprio stato di salute con chiare manifestazione: palpitazioni, tachicardia, nausee, difficoltà di respiro, sudore freddo, malessere diffuso …

Nel bambino, possiamo evidenziare alcuni segnali specifici di stress, sebbene occorra sempre considerare la quantità dei sintomi e la durata:

  • Fisici: mal di testa, dolore allo stomaco, battito cardiaco accelerato, senso di stanchezza.
  • Cognitivi: difficoltà di concentrazione, preoccupazioni eccessive, pensieri irrazionali.
  • Emotivi: ansia, nervosismo al mattino, sbalzi di umore, demotivazione, scoppi di rabbia.
  • Comportamentali: minore livello di attività, difficoltà di addormentamento, comportamenti fobici o aggressivi, bulimia, scoppi di pianto.
  • Relazionali: senso di esclusione, ritiro sociale, difficoltà con compagni, insegnanti e istruttori, litigiosità familiare.

 

Cosa fare per ridurre lo stress?

  1. Impegniamoci e impegniamo i bambini in attività (commitment) bandendo ogni tipo di alienazione. Fate un programma dettagliato, cercando ovviamente, di rispettare i vari punti senza procrastinare troppo. In fondo, il lavoro può continuare, così come lo studio programmato, i compiti e gli esercizi, così come cucinare, fare bricolage in casa, dedicarsi al giardinaggio, dedicarsi al proprio sport, …
  2. Esercitate un controllo su ciò che fate, sentendovi responsabili e i principali artefici, combattendo così il senso di impotenza. Fate le cose con volontà, impegno, determinazione e costanza e non “tanto per …”. Fate comprendere ai vostri bambini il perché delle cose e non solo l’obbligo, l’imposizione, la regola.
  3. Orientatevi alla sfida, contrapponendovi alla minaccia, ponendovi degli obiettivi, se pur piccoli o simbolici. Fate in egual modo con i bambini: ponete una ricompensa, un premio, un vantaggio a breve termine.
  4. Humor: non andate sempre alla ricerca di informazioni e notizie che “confermano” il periodo di stress che state vivendo insieme ai vostri bambini. Distraetevi, “staccate la spina” magari guardando un film divertente o facendo qualcosa che vi fa sorridere o ridere. Evitate il sovraccarico di informazioni. Potete decidere deliberatamente di non guardare, ad esempio, il telegiornale 1, 2 volte a settimana!
  5. Ottimismo: sebbene possa essere considerato una caratteristica personologica, guardate diversamente il mondo, il periodo, ciò che accade, sentendo pienamente e immaginando che le cose procederanno progressivamente meglio, bene. Fatelo con slancio, ma esercitatevi. Potete “rendere” i vostri bambini più ottimisti. Fateli raccontare storie a lieto fine, fate loro scrivere un bel racconto, una filastrocca, una poesia che allontani timori ed ansie. Potete procedere anche con un disegno libero o guidato, … Ricordiamo anche che l’ottimismo incide positivamente sull’autostima. Attraverso l’ottimismo le situazioni appaiono più controllabili e anche quando si vive un periodo “pesante”, si trasforma la rappresentazione che abbiamo di una situazione irrisolvibile, attenuando il senso di impotenza che possiamo provare.

Dicono di noi Unique Antistress Quality

ESERCIZIO PRATICO PER I BAMBINI E NON SOLO …

Ricordiamoci che il Gioco è una cosa Seria!

Una persona calma respira in modo calmo! Non è una banalità, ma lo stress si riduce anche attraverso delle “buone pratiche”. Rallentare il ritmo respiratorio è la prima cosa da fare, ma occorre esercizio!

“Immagina di essere un super artista di un famosissimo circo. Sei vestito con dei colori sgargianti e appena entri in scena scoppia un super applauso fragoroso.

Allarga le braccia perché stai per effettuare una camminata su una fune sospesa sopra la testa degli spettatori. (Potete, ad esempio, disporre a terra una corda, una fune, una striscia lunga qualche metro)

Comincia a rallentare il respiro. Inspira ed espira con calma, approfondendo progressivamente la respirazione.

Poni un piede dopo l’altro, con calma, piano, piano … porta in avanti il piede appoggiando delicatamente il tallone, poi la pianta, poi la punta. Continua a respirare lentamente e profondamente.

Senti il peso che si sposta progressivamente verso il piede che si trova in avanti. Fai un bel respiro, più lento e profondo.

Procedi con l’altro piede.

Ruota il busto verso la tua destra e saluta il pubblico che ti guarda. Ruota verso la parte opposta e fai lo stesso.

Senti le sensazioni che provengono dai fianchi mentre ti muovi. Concentrati sull’equilibrio e sul tuo respiro calmo e profondo.

Procedi con calma e armonia …

Sei quasi alla fine del percorso e ti accorgi che il tuo respiro è calmo e profondo, il corpo perfettamente in equilibrio. Sei attento e concentrato.

Sei alla fine. Fai un bel respiro ed esci con un bel saltello, piegando le ginocchia per atterrare con morbidezza sulla pedana.

Fai un inchino di ringraziamento e goditi gli applausi del pubblico …”

(usate l’immaginazione per modificare ed arricchire l’esercizio)

Ipnosi e Sindrome di Silver Russell: un caso magico.

La sindrome di Silver Russell (SSR) è una malattia genetica caratterizzata principalmente da un ritardo di crescita pre e post-natale, associato a peculiari caratteristiche del volto. In taluni casi, si riscontra anche asimmetria corporea.
Secondo i dati disponibili, maschi e femmine sono affetti in egual misura.

Le cause sono di natura genetica e il denominatore comune sembra essere uno sbilanciamento nell’espressione di geni necessari per la regolazione della crescita.
Tale sbilanciamento è determinato da un fenomeno denominato imprinting genomico. Tra il 35 ed il 50% dei casi la SSR è causata da anomalie dei geni, localizzati a livello del braccio corto del cromosoma 11 (11p5).
Nel 40% circa delle persone con SSR non si riesce ad individuare una causa genetica. E’ possibile che siano in causa alterazioni dell’imprinting di geni che non appartengono né al cromosoma 7 né al cromosoma 11.
Di solito non è possibile la diagnosi prenatale in quanto la maggior parte dei casi è sporadica.

La caratteristica principale dei bambini affetti da SSR è lo scarso accrescimento corporeo. Alla nascita, sia il peso che l’altezza sono molto inferiori alla norma e tale rallentamento della crescita persiste anche successivamente.
In realtà, lo scarso accrescimento riguarda soprattutto il peso. Inoltre, non coinvolge il capo: la circonferenza cranica, infatti, accresce normalmente. Per tale motivo il capo sembra sproporzionatamente voluminoso.
La fronte è larga e prominente, contrasta con il viso triangolare e piccolo, con il mento piccolo e appuntito, la bocca larga con labbra sottili e angoli rivolti verso il basso, gli occhi grandi e le sclere blu.
Nel 60-80% dei casi è stata osservata asimmetria degli arti, di solito parziale ma non progressiva. Sono comuni la brachidattilia (dita più corte del normale) e la clinodattilia del V dito (mignolo ricurvato).
Lo sviluppo motorio, generalmente, è rallentato e in alcuni casi si può riscontrare un deficit cognitivo.
Non esiste un trattamento specifico per tale malattia, tuttavia, i bambini affetti da SRS possono essere trattati con ormone della crescita (GH).

Il problema più rilevante però, è la gestione dell’alimentazione, poiché i bambini manifestano scarso appetito e problemi gastrointestinali, come reflusso gastroesofageo e/o vomito ricorrente.
L’obiettivo principale della gestione dei primi anni è fornire, quindi, un adeguato supporto nutrizionale e calorico.
A tal proposito, in un bambino affetto da SSR è stato attuata una terapia ipnotica, consistente in sei sedute da due ore circa, con il primario obiettivo di implementare la nutrizione e quindi il peso.

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 Il bambino, 5 anni, figlio unico, mostra normale socievolezza, attenzione e concentrazione nel gioco libero e in quello guidato. Ricerca, inoltre, molto il contatto fisico e la vicinanza. Si evidenzia una difficoltà nelle espressioni emotive del viso, ad eccezione della gioia. Manifesta, inoltre, un ritardo significativo nel linguaggio e nella comunicazione.
 È stato nutrito, prevalentemente, con l’ausilio di sondino e cannule.
 I genitori palesano molta ansia a causa della situazione e manifestano, a tratti, una comunicazione discordante. Il bambino è assistito, prevalentemente, da una terza figura, una tata. L’ambiente dove vive il bambino è comunque confortevole e non si registrano altre anomalie significative.

L’approccio ipnotico è stato orientato gradualmente, attraverso il gioco libero. Il bambino ha mostrato, da subito, interesse e coinvolgimento. Ha palesato, già durante la prima sessione, rilassamento e sonnolenza con una riduzione della motilità. Le sedute successive hanno avuto la stessa durata e sono state arricchite da stimoli e condizionamenti legati al cibo e al gusto.
Già dalla terza sessione di ipnosi, il bambino mostra maggior interesse verso il cibo e un comportamento di esplorazione più motivato. Durante le sessioni, mangia tranquillamente e in autonomia alcuni pezzi di pane.
A distanza di una settimana, il bambino ha abbandonato la nutrizione con i vari sondini e si avvicina in modo più normale al cibo su una tavola bandita riccamente.
Per rinforzare il nuovo apprendimento, è stato coinvolto in attività semplici di cucina, come preparare un dolce, apparecchiare tavola, assaggiare e valutare una pietanza.

L’aspetto “magico” di questa storia clinica non riguarda l’efficacia dell’ipnosi, su cui, non nutro, ovviamente, dubbi, ma sulla constatazione che il lavoro ipnotico, nella sua complessità, “funziona” anche indipendentemente dalla lingua e dalla cultura. Il bambino in questione, infatti, è straniero!

psicologia e minori Mirco Turco

Insegnanti: 6 cose e mezzo da ricordare.

Insegnanti: 6 cose e mezzo da ricordare …

psicologia e minori Mirco Turco
Se avessi seguito la mia naturale vocazione? Se avessi dato ascolto ai miei interessi? Se avessi avuto fiducia nel mio istinto? Se avessi avuto una giusta guida? Se mi avessero consigliato diversamente? Bhe’ … potremmo continuare all’infinito, senza avere, in realtà, alcuna risposta esaustiva.
Il ruolo delicato degli Insegnanti è anche questo. Individuare inclinazioni, predisposizioni, talenti e soprattutto stimolare, dare esempio, fornire motivazione, ispirazione, dare fiducia.

1. Insegnate un interesse. Le persone sono estremamente più soddisfatte in un corso di studio o lavoro che corrisponda alla loro inclinazione personale. Le persone che hanno trovato un corso di studi o un lavoro corrispondente ai loro interessi sono anche generalmente più soddisfatte della vita. Rendono, inoltre, meglio! Sebbene gli interessi possano essere un qualcosa di squisitamente personale, essi si scoprono solo parzialmente con l’introspezione. Si scoprono, in realtà, attraverso le interazioni con il mondo esterno. Senza sperimentazione è impossibile capire quali interessi siano destinati a durare e quali no. Gli interessi devono anche incontrare il sostegno da parte degli adulti significativi: genitori, insegnanti, compagni, allenatori, … Lo sviluppo di un interesse, quindi, richiede del tempo. Insegnate la pazienza.

2. Oltre ad “insegnare” un interesse, occorre alimentare una passione. Le persone animate da una forte passione si applicano molto più a lungo delle altre e sono spinte verso il miglioramento continuo. Kaizen è il termine giapponese per indicare la resistenza contro il rischio di arenarsi, una volta raggiunto il plateau della curva di apprendimento. Insegnate la passione e non il sacrificio!

Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.
3. Occorre, inoltre, prospettarsi degli obiettivi, via, via, crescenti e dedicare più tempo a quelle aree di “debolezza” o di miglioramento. A volte, la routine è fondamentale quando si tratta di fare cose difficili. Programmare la giornata, dunque, non è poi cosa tanto negativa. Insegnate a visualizzare dettagliatamente gli obiettivi. Più chiari e definiti sono, meglio è. La mente ha bisogno di direzioni!

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4. In questa non facile corsa verso l’obiettivo, sarà normale incappare in errori. Ciò è quasi obbligatorio. Quindi, insegnate anche a sbagliare. Quando si compiono errori, l’insegnante, il genitore, l’ Istruttore, non dovrebbero perdere mai la calma. Anzi, all’inizio, dovrebbero incappare anche loro stessi in errori, sorridendo ed esclamando … hnnn, mi sono sbagliato! Sgridare, urlare o lanciare occhiatacce potrebbe far sperimentare la vergogna e la vergogna non serve a migliorare le cose.

5. Insegnate la speranza. La speranza che anima le persone appassionate e determinate non ha niente a che fare con la buona sorte. “Sento che domani andrà meglio” è tutt’altra cosa da “Ho intenzione di migliorare il domani”. L’ottimismo può essere appreso. Lavorare per edificare l’ottimismo è altra tappa importante. Gli ottimisti sono meno esposti a depressione e ansia, hanno migliori voti a scuola e all’ università e raramente interrompono gli studi. Da adulti, godono di migliore salute, hanno una più lunga aspettativa di vita e sono generalmente più soddisfatti delle loro relazioni.

dimmi come cammini e ti dirò chi sei mirco turco
6. Infine, insegnate la sana competizione, che non significa ostacolare gli altri, alimentando la cultura del nemico e non significa ingannare o essere furbi. Significa, “sforzarsi insieme” …

Per finire, cari insegnanti, vorrei fare un’ultima “mezza” considerazione: ponete la giusta distanza con i genitori, un saggio spazio di paziente osservazione, dialogo, ascolto, diplomazia e determinazione in cui essi stessi comprendano, grazie a voi, il loro reale ruolo e anche il giusto posto …

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Ipnosi e bambini

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IPNOSI E BAMBINI

La terapia ipnotica con i bambini non è differente da quella con gli adulti ma, di certo, è il modo di somministrarla che ovviamente cambia!

Il bambino ha una generale curiosità verso il nuovo, è un esploratore instancabile e desidera fare sempre nuove esperienze. La sua predisposizione a nuovi apprendimenti lo rende un “buon soggetto ipnotico”.

Il chirurgo che dice al bambino di 4 anni “… adesso questo non ti fa male, non è vero?”, sbaglia già da subito. Diverso è dire “… adesso questo potrebbe farti male, ma credo che tu possa fermare un bel po’ del male, forse anche tutto …”. In questo secondo caso siamo davanti ad una frase “ipnotica”! “… può darsi che tra poco il dolore svanisca, tra un minuto o due” è un altro esempio suggestivo.

In sostanza, con il bambino, difficilmente useremo una tecnica formale o ritualizzata di ipnosi. Egli ha una grande capacità eidetica, una naturale fame di imparare e una necessità di partecipare alle diverse attività di finzione, imitazione e immaginazione.

La tecnica ipnotica, ovviamente, va spiegata in primis ai genitori come una strategia naturale e non artificiosa, come una comunicazione ecologica   e quindi non invasiva.

Luca, un bambino di 7 anni, soffre di emicrania (lato dx). Giunge con la madre che spiega genericamente la situazione e tutti gli esami clinici  effettuati che escludono possibili patologie rilevanti da un punto di vista medico. La mia attenzione è focalizzata sul bambino, per creare, da subito, rapport, anche con un “gioco di faccine” o comunque tramite mirroring (rispecchiamento). Faccio parlare poi Luca del “suo mal di testa”. Prontamente reagisce e interagisce, mostrando, ovviamente, predisposizione all’immaginazione. Insieme, con tecniche ipnotiche conversazionali, “costruiamo” un supereroe, Mister x, che da quel momento, sarà sempre al suo fianco (dx) e interverrà, con le sue armi magiche, all’occorrenza.

… il dolore viene immaginato da Luca come una nuvoletta grigia che si avvicina ed entra nella sua testa ma ora, con Mister x, quella nuvoletta “sarà cacciata via e ridotta a pezzettini bianchi, spazzati via e allontanati dal potere del vento”.

Con due sedute ipnotiche l’emicrania di Luca è scomparsa. I genitori hanno appreso che il dolore non ha solo cause organiche!

Giulia, una ragazzina di 9 anni, ha subito un intervento al braccio dx e  lamenta, a distanza di diversi mesi, un dolore ancora forte alla ferita. Appassionata di trucco e profumi, costruisce con la sua fervida immaginazione una “crema curativa”, con proprietà anestetiche, rinfrescanti e rigeneranti! Da quel momento gestirà meglio il dolore che sin dalle prime sedute, si trasforma in un leggero fastidio!

Ricordo ancora un bambino che piangeva sulla spiaggia. La madre non riusciva a calmarlo. Mi avvicinai abbassandomi alla sua altezza con un bicchiere di plastica vuoto … “continua a piangere, lentamente e fallo finché il bicchiere sarà pieno delle tue preziose e giuste lacrime … anzi, forse me ne serviranno 20,25, forse 30 o di meno … mi serviranno per costruire un grande castello di sabbia lì, vicino alla riva, vedi?

Il bambino terminò di piangere istantaneamente e … fece ovviamente il castello insieme a me!
Nell’ipnosi, come nella comunicazione in generale, con i bambini, così come con gli adulti, occorre sempre partire dal grande e naturale bisogno di essere compresi …

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L’ascolto del minore: dal setting protetto all’applicazione delle neuroscienze investigative.

Quando un bambino manifesta dei disagi non si dovrebbe perdere troppo tempo con le indagini del suo inconscio. Bisognerebbe cominciare le indagini altrove …”. Niente influenza maggiormente i bambini degli atteggiamenti manifesti e dei retroscena dei genitori1. Tale assunto, sicuramente condivisibile, trova però ovvie limitazioni quando il minore “incontra” il sistema giudiziario.

Gli incisi introduttivi si “scontrano” anche, al contempo, con l’evidenza che il minore deve necessariamente confrontarsi con altri attori che, volenti o dolenti, si trovano a condividere stessi spazi, stessi tempi e medesimi scenari.

Un protagonista fondamentale ed essenziale spesso è il consulente esperto in psicologia e/o criminologia che, oltre ad un bagaglio tecnico scientifico, può e deve spesso offrire anche e soprattutto una sua disponibilità emotiva e affettiva o quella che Kohut chiamava “empatia scientifica”.

La consulenza tecnica e la perizia in materia di abuso sessuale dovrebbero essere affidate a professionisti formati in modo specialistico e in costante aggiornamento. Nella raccolta delle informazioni e nella successiva valutazione del minore, l’esperto, inoltre, deve considerare due punti imprescindibili:

  1. Utilizzare metodi e metodologie riconosciute dalla Comunità Scientifica.

  2. Rendere esaustivi ed espliciti i modelli teorici di riferimento, allo scopo di favorire una lettura critica dei risultati.

L’esperto è chiamato ad esprimere “giudizi” di natura psicologica, soprattutto considerando la fase evolutiva del minore. Infatti, l’audizione del minore non riguarda l’accertamento dei fatti sotto il versante giudiziario2. Egli, pertanto, dovrà analizzare:

  • Le funzioni psichiche del minore.

  • Percezione, memoria, pensiero.

  • Affetti ed emozioni.

  • Relazioni.

  • Eventuale presenza di psicopatologie.

  • Capacità di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla fantasia.

  • Suggestionabilità.

  • Tendenza a fantasticare o confabulare.

Appare evidente, che il famoso buon senso junghiano, non è sufficiente!

Si tratti di abuso o di altre vicissitudini, occorre considerare che possono esistere meccanismi consci e inconsci che spingono lo stesso minore a dichiarare fatti e/o realtà che non sempre sono corrispondenti al reale: menzogne di fantasia, pseudomenzogne, fraintendimenti, falsi ricordi, persuasioni esterne, ecc.

Grande importanza riveste, quindi, la preparazione scientifica dell’esperto, oltre, ovviamente, alle sue capacità di relazionarsi con un minore (cosa non scontata). Ad onor del vero, andrebbe anche ribadito che il ruolo dell’esperto non è terapeutico ma “processuale”.

In prima istanza, chi si occupa di un minore dovrebbe rispettare alcune semplici linee guida, al fine di preservare ulteriore stress e traumatizzazione allo stesso3.

Gli orari, i tempi e i luoghi devono preservare, il più possibile, la serenità del minore e lo stesso deve essere informato sui suoi diritti. Il minore deve liberamente essere sereno nell’esprimere opinioni, esigenza e preoccupazioni, quindi, occorre evitare domande che possano compromettere la stessa spontaneità delle dichiarazioni, nonché la genuinità e sincerità delle risposte.

Sarebbe opportuno non richiedere le stesse cose al minore per evitare possibili “ripensamenti”. L’atteggiamento emotivo neutro dell’esperto sarebbe auspicabile al fine di evitare rinforzi positivi o negativi, anche sul piano non verbale. Quindi, evitare domande suggestive che possano, in svariato modo, inquinare la memoria del minore. A tal fine, si palesa che la memoria non è riproduttiva ma ricostruttiva.

Dopo aver valutato alcuni aspetti cognitivi, emotivi del minore, l’apertura di un’intervista dovrebbe cominciare con domande generiche, al fine di favorire un possibile racconto libero del minore. Iniziare un’intervista ponendo subito domande dirette sui fatti accaduti è sconsigliato4.

E’ ovvio che la pazienza è d’obbligo: il bambino, oltre alla sua mappa del mondo, ha i suoi tempi e i processi cognitivi ed emotivi non sono quelli di un adulto. Soffermarsi anche sui silenzi, sulle pause e su discorsi o frasi che possono apparire anche irrilevanti è essenziale per garantire la buona riuscita dell’ascolto.

Parlare lo stesso linguaggio del minore è fondamentale. Occorre evitare termini complessi e tecnicismi, poiché inducono il minore alla non risposta o a risposte forzate ma non veritiere. Utilizzare, di fatto, frasi brevi e concise5.

In riferimento a situazioni di abuso, ad oggi, va considerato che non esisterebbero evidenti indicatori correlati a sintomi o comportamenti manifestati dalla presunta vittima. Si parla, infatti, di indicatori aspecifici che, in ogni caso, vanno valutati parallelamente alle altre informazioni relative al caso, all’ambiente scolastico, familiare, sociale dello stesso minore6. Esistono, inoltre, atteggiamenti e comportamenti sessualizzati del minore, anche molto piccolo, che ricadono nella “norma”.

L’incarico di valutare il minore, sia in sede di perizia o di incidente probatorio non può essere effettuato da chi già conosce, a vario titolo, il minore. E’ obbligatorio, inoltre, ascoltare chi ha già interrogato il minore prima dell’audizione ufficiale, sempre al fine di preservare l’autenticità, la correttezza delle procedure e quindi l’attendibilità.

La testimonianza di un minore e in genere la testimonianza, non è argomento semplice su un piano scientifico, tanto meno lo può essere sul piano applicativo.

Al di sotto dei 12 anni, infatti, le capacità mnemoniche dei minori sono più deboli di quelle degli adulti. Il bambino piccolo si muove ancora all’interno di un sistema di attaccamento e quindi, è disposto naturalmente a modificare i dati della realtà percettiva pur di garantirsi la vicinanza di una figura accudente. Da considerare che le funzioni meta-cognitive sono poi in evoluzione e progressivamente, si ha anche l’intrusione di altre variabili di confusione, come ad esempio, le informazioni post-evento e contestuali che, di fatto, possono deformare l’attendibilità della testimonianza del minore7.

Il contenuto di un ricordo testimoniale deve essere considerato “come qualcosa che non può mai essere pura riproduzione fotografica di un fatto obiettivo, ma è sempre il prodotto di una molteplicità di coefficienti …”8. È chiara però, al contempo, la responsabilità di chi interroga il minore, poiché il minore stesso può rendere testimonianze attendibili.

Probabilmente, la prima indagine sulla suggestionabilità infantile ha avuto luogo in Francia nel 1784, quando il governo francese formò una commissione per investigare su Franz Anton Mesmer che curava le malattie fisiche degli adulti e dei bambini attraverso la suggestione esercitata e il convincimento.

La suggestionabilità di un minore non si limita solo a tratti personologici o ad assetti cognitivi ed emotivi ma riguarda anche aspetti motivazionali e di contesto. Il minore, soprattutto se piccolo, si limita ad accettare spesso ciò che viene detto dall’adulto, perché lo considera superiore e credibile. L’interrelazione tra fattori cognitivi e sociali è di fatto pericolosa in tal senso. Ne deriva che una suggestione del fattore sociale può diventare anche accettata sul piano cognitivo e quindi “inserita” nella memoria stessa. Non a caso, elementi della memoria semantica possono “passare” nella memoria episodica, sino a casi particolari ma possibili di traslazioni inconsce.

Ritornando al punto di partenza, occorre valutare bene le competenze di base di un minore testimone e adottare, in modo protetto, le tecniche e le procedure scientifiche che più mostrano validità e attendibilità. “La suggestionabilità è il peccato della memoria più facile da evitare: basta sapere cosa non fare”. Così si esprimeva Schacter.

Un setting di un ascolto del minore, ascolto protetto, dovrebbe rispettare alcuni canoni. Sarebbe opportuna una camera con specchio unidirezionale o un circuito televisivo e di videoregistrazione. Un minore andrebbe poi ascoltato con una certa flessibilità, procedendo ad un’accoglienza intelligente ed empatica, favorendo la protezione del mondo interno del minore a seconda della sua età de delle esigenze.

Alla luce delle moderne neuroscienze e della validità di alcuni strumenti utili ad “indagare” sulle varie comunicazioni, confessioni e testimonianze (es. Intervista Cognitiva; Protocollo NICHD; …)9 , non si può non fare riferimento oggi al sistema FACS, Facial Action Coding System.

Secondo la teoria Darwininana “la capacità dell’uomo e dell’animale di esprimere alcune emozioni è geneticamente predisposta. Studi condotti nella maggior parte delle popolazioni mondiali hanno dimostrato che l’uomo esprime sentimenti come la paura, la rabbia, la gioia, il disgusto, il disprezzo, la tristezza e la sorpresa nello stesso modo in tutto il globo”.

Da molti anni il ricercatore Paul Ekman studia sia la codifica (cioè la trascrizione di ogni unità motoria di azione muscolare coinvolta nell’espressione dell’emozione) che la decodifica (ossia l’interpretazione delle unità di azioni coinvolte) delle emozioni sul volto umano10.

Le espressioni possono essere manifestate in modo volontario o involontario. Molti autori si sono concentrati proprio sullo studio della via volontaria ed hanno spiegato come questa si associ sostanzialmente al “mentire”. Un’espressione spontanea, infatti, può essere soltanto involontaria e coinvolgere simmetricamente muscoli ben precisi, con una durata che va da poche frazioni di secondo a qualche secondo.

L’analisi FACS parte dalla scomposizione dell’espressione nelle AU (action unit) che hanno prodotto il movimento, attraverso una microanalisi di filmati.

Grazie al FACS si possono identificare le “microespressioni”, ossia espressioni ultra rapide, della durata di meno di 1/5 di secondo, utilissime poichè rivelatrici di ciò che la persona cerca, in un contesto specifico, di nascondere all’interlocutore.

Non è un caso che lo studio affascinante delle microespressioni di Ekman, abbia interessato anche gli istituti di sicurezza nazionale, come FBI e CIA.

Nello specifico si ribadisce che il viso può essere considerato un sistema duplice, un territorio intermedio, dove volontario e involontario si incontrano e una persona può volontariamente esprimere un sentimento falso ma non può nasconderne uno autentico.

Identificare le microespressioni aprirebbe strade molto importanti per la comprensione della psiche umana pur se al contempo, incontrerebbe alcune polemiche probabili legate al concetto di libertà di autodeterminazione dell’individuo, così come sancito dalla legislazione italiana.

Gli studi di Ekman furono ripresi dalla dottoressa Harriet Oster che li applicò ai neonati e ai bambini: Baby FACS. In tal senso, esistono solo alcune piccole differenze nelle codifiche e decodifiche e alcune difficoltà di fondo legate alla percentuale di massa grassa e/o alla assenza di rughe, oltre a difficoltà di osservazione di alcuni movimenti sopraccigliari.

In ogni caso, il Baby FACS risulterebbe strumento strategico da affiancare ad altri metodi e metodologie nelle differenti situazioni di ascolto che vedono come nucleo centrale il minore. Appare alquanto ovvio, oltremodo, ricordare che il concetto di menzogna o banalmente bugia, segue tappe “evolutive” particolari nel minore.

Se da un lato il sistema FACS non va assolutamente considerato come strumento rilevatore esclusivo della menzogna, esso comunque mira a fornire un “indizio” sulla attendibilità o non attendibilità delle dichiarazioni11.

Riferirsi agli elementi paralinguistici e non verbali in generale sarebbe alquanto strategico in sede di valutazione del risultato probatorio. Il giudice, quindi, pur rifacendosi al proprio acume soggettivo, potrebbe di fatto anche affidarsi ai risultati o indici derivanti dalle applicazioni scientifiche, lasciando, al contempo, impregiudicata la libertà morale dell’individuo12.

In questa ricerca affannosa verso la Verità e la Giustizia, al di là di metodi e procedure scientifiche, di buon senso e di maniere garbate, di sensibilità o fiuto investigativo, non dovremmo mai scordare di proteggere il minore da ulteriore disagio, stress, trauma, preservando al massimo il suo equilibrio, se pur precario. Questo dovrebbe essere considerato un obbligo morale e scientifico di ogni professionista coinvolto.

Tanti disagi infantili sono piuttosto sintomi di uno stato psichico genitoriale o di altri adulti per lui “significativi” che di fatto, avrebbero dovuto proteggerlo, progressivamente, fornendo una base sicura e difendendo la sua saggia ingenuità. Ma questo, è un altro discorso.

  1. Jung, C.G. (1979). Psicologia e Educazione. Boringhieri ed.
  2.  Biscione M.C., Calabrese C., Scali, M. (2003). La tutela del minore: le tecniche di ascolto. Carocci ed.
  3.  Cavedon, A., Calzolari, M.G. (2001). Come si esamina un testimone. Giuffrè ed.
  4.  Dettore D., Fuligni, C. (2008). L’abuso sessuale sui minori. McGraw-Hill ed.
  5.  Gulotta G. (2005). Tecniche di ascolto e intervista strutturata. La psicologia della testimonianza. Scuola di Polizia GAI, Brescia.
  6.  SINPIA (2007). Linee guida in tema di abuso sui minori. Erickson ed.
  7.  Caso, L., Vrij A. (2009). L’interrogatorio giudiziario e l’intervista investigativa. Il Mulino ed.
  8.  De Leo, G. Patrizi, P. (2002). Psicologia giuridica. Il Mulino ed.
  9. Turco, M. (2014). Tecniche di interrogatorio e Rilevazione della menzogna. Criminal Profiling Training Course. Forensics Group, Zivac Group. Bucarest –RO.
  10.  P. Ekman, W.V. Friesen (2007). Giù la maschera: come riconoscere le emozioni dall’espressione del viso. Giunti ed.
  11.  Jelovcich M.(2014). Il Facial Action Coding System: pseudoscienza o metodo affidabile per accertare l’attendibilità del contributo dichiarativo? Diritto Penale Contemporaneo, 2014.
  12.  De Cataldo N.L. (2007). La prova scientifica nel processo penale. Cedam ed.

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